L’inchiesta di Franchetti e Sonnino

Il fondamento del meridionalismo è sicuramente rintracciabile nella Inchiesta in Sicilia del 1876 fatta dai toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino.

I due studiosi, avvinti dalla cultura positivista del loro tempo, vollero fare proprio il metodo dell’indagine sul campo per individuare poi possibili misure politiche per affrontare i più spinosi problemi. I risultati destarono scalpore: Franchetti e Sonnino scoprirono l’estrema povertà delle terre siciliane, il dramma del lavoro minorile, la violenza del ceto possidente e della mafia.

Nella loro relazione la questione meridionale emergeva come problema nazionale e sociale che scaturiva dalla persistenza nel Meridione di una società ancora dominata dalla grande proprietà latifondistica. L’analfabetismo, l’arretratezza economica, la mafia, l’insofferenza per le tasse, l’incapacità di governo della classe dirigente locale poggiavano su un ordinamento fondiario antiquato ed oppressivo per i contadini.

Così del ceto dirigente è detto: “E quella medesima classe abbiente che mostra una pazienza così mansueta di fronte ad un’accozzaglia di malfattori volgari, che riconosce in loro una forza da rispettarsi, e un interesse da tenersi in conto nelle relazioni sociali, si compone in parte della gente in Europa più gelosa dei privilegi e della potenza che dà, in Sicilia, ancora più che altrove, il nome e la ricchezza; più appassionatamente ambiziosa di prepotere; più impaziente delle ingiurie; più aspra nelle gare di potere, d’influenza ed anche di guadagno; più implacabile negli odi, più feroce nelle vendette, così di fronte ai suoi pari come di fronte a quei facinorosi, che sembrano padroni assoluti di tutto e di tutti nella provincia… Gli stessi mezzi energici ed efficaci sono pronti ai bisogni di ogni interesse e di ogni passione. La storia degli odii ereditari tra famiglie, delle loro rivalità, delle loro gare nel contendersi l’onnipotenza nel loro Comune, fornirebbe argomento ad una biblioteca di tragedie…”. Su tutta questa violenza si legge: “Sarebbe difficile esagerare l’importanza della parte che hanno gli sfregi, le schioppettate e soprattutto il timore delle schioppettate nelle relazioni d’ogni genere fra persone in Palermo e dintorni. Con questo mezzo, si rende l’ingiuria alla quale non si vuole o non si può rispondere con una sfida a duello; collo stesso si allontanano i concorrenti pericolosi dalle aste pubbliche. Con questo si proteggono e si difendono gli amici e gli aderenti. Con questo i più energici e i più abili si assicurano in tutte le cose e pubbliche e private un dominio assoluto, che non ha altro limite se non le violenze di altri prepotenti suoi pari. Certamente, il timore e la minaccia della violenza non è sempre lì presente alla mente di chi impone e di chi subisce la prepotenza. Talvolta il prepotente stesso non si dubita di esser tale, e si scandalizzerebbe forse a sentirsi dire ch’egli esige cosa contraria al diritto e l’ottiene coll’intimidazione. Anzi, la violenza non è il solo mezzo usato per prepotere. In Palermo, come in ogni altro paese, i codici sono spesso ottimo istrumento a tal uopo; come in ogni altro paese e più ancora, l’uso delle astuzie e dei raggiri non è proscritto. Ciononostante, se si va a ricercare il primo fondamento dell’influenza di chi ha un potere reale, lo si trova quasi inevitabilmente nel fatto o nella fama che quella tale persona ha possibilità, direttamente o per mezzo di terzi, di usare violenza. Nè potrebbe essere altrimenti: una volta che esiste siffatto stato di relazioni sociali a mano armata, chi vuol godere una certa influenza o, talvolta, solamente esser rispettato nell’onore e negli averi, conviene che abbia a suo comando una forza armata di una certa importanza e faccia sapere che l’ha. Difatti, si sente raccontare che la tale o tal’altra persona influente in politica o nelle amministrazioni locali, ha a suo servizio il tale o tal altro capo mafia di Palermo o di un paese vicino, e per mezzo suo, una parte di quella popolazione di facinorosi per mestiere o per occasione, che infestano la città e i suoi dintorni; il che significa che da un lato egli potrà giovarsi del terrore ispirato da quella gente; che saranno al bisogno usati a suo vantaggio i mezzi i quali già servirono a spargere quel terrore; e che dall’altro, egli, in caso di bisogno, aiuterà e proteggerà questi suoi clienti”.

La diagnosi aveva fondamenta storiche: “l’abolizione di diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto perché i feudi furono lasciati in libera proprietà agli antichi Baroni: onde al legame tra il coltivatore e il suolo che prima era costituito dalla stessa servitù feudale, non si sostituì come altrove l’altro vincolo di proprietà, ma invece quel legame fu semplicemente rotto, e il contadino si trovò libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto di fatto a maggiore schiavitù di prima per effetto della propria miseria”. Alla sopravvivenza del sistema feudale erano anche imputati il sistema clientelare e la mentalità individualista, più in generale una violenza padronale raccapricciante che non si fermava neppure davanti allo sfruttamento del lavoro minorile nelle zolfare: per dodici ore al giorno, i carusi, ragazzi di sette o al massimo dieci anni, trasportavano sulla schiena i materiali estratti dal profondo delle cave sino in superficie; i più piccoli portavano sulle spalle, incredibile a dirsi, un peso dai 25 ai 30 chili.

Forse è pure la prima volta che si tentò una vera analisi della mafia, Non più vista solo come ordinaria delinquenza, cosa che fino ad allora avevan fatto tutti i governi della Destra Storica. Agli occhi dei due studiosi essa apparve “un sentimento medioevale”. In una società strutturalmente clientelare e corrotta, il mafioso era colui che pensava di “provvedere alla tutela e alla incolumità della sua persona e dei suoi averi mercé il suo valore e la sua influenza personale indipendentemente dall’azione dell’autorità e delle leggi”, al di fuori dello Stato o anche usando i suoi organi periferici, le pubbliche amministrazioni. Il potere intimidatorio, la capacità di influenza, il controllo economico della mafia si incarna in uomini di condizione agiata, rispettosi ed autorevoli, capaci di uccidere e far uccidere, di sfregiare e punire, condizionando il mondo del lavoro e l’intero sistema produttivo. Il governo per Franchetti e Sonnino, con i suoi metodi repressivi, aveva cristallizzato questo sistema oppressivo, assicurando l’impunità agli oppressori e impedendo, peraltro, ai siciliani di liberarsene.

La relazione in effetti destò scalpore soprattutto perché, nel mettere al centro i rapporti di proprietà, denunciava il sistema oppressivo e violento della grande proprietà siciliana che pure era la base sociale Destra Storica di cui Franchetti e Sonnino erano illustri esponenti. I due studiosi, timorosi di una esplosione socialista nelle campagne, che presagirono descrivendo la nascita di numerose leghe di contadini e scioperi, si mostrarono sempre speranzosi di legare le masse contadine allo Stato liberale, propensi ad introdurre al Sud il diritto più che la forza e misure d’equità sociale. Per supportarono la diffusione, con provvedimenti governativi, del sistema della mezzadria toscana coi suoi forti tratti di paternalismo sociale.

Il capitolo sulla mezzadria è interessantissimo, introdurla sarebbe facile, “basterebbe a questo intento che stipulassero coi coloni dei contratti lunghi in modo da assicurar loro il giusto frutto dei loro sforzi; che concedessero loro per i primi anni alcune condizioni più larghe di repartizione dei prodotti; e di più che li aiutassero nella costruzione delle case, e nel provvedersi di qualche strumento agricolo un po’ meno primitivo di quelli attuali; e li sovvenissero con qualche soccorso senza interessi, o a un frutto modico, e col dar loro possibilmente qualche capo di bestiame a soccida, perchè possano meglio lavorare e concimare i poderi, e ritrarre qualche guadagno dall’allevamento. Sappiamo invero che molti proprietari non sono in condizioni da poter far subito nemmeno questo, ma d’altra parte ve ne sono pure tanti altri per cui la formazione ogni anno di uno o due nuovi poderi muniti di tutta la dote occorrente per l’attivazione di una mezzadrìa, sarebbe cosa facilissima, e che non implicherebbe altro sagrifizio che quello di voler prendere una decisione; ovvero per alcuni la rinuzia a un cavallo di lusso, o a un palco al teatro, o a qualche giorno di più di visita alle bagnature dell’estero: e, diciamo il vero, il pensiero di tali sagrifizi non ci commuove, e tanto meno se pensiamo che essi non rappresentano altro che la rinunzia a un godimento immediato in vista di un vantaggio avvenire; che equivalgono insomma a mettere danari a frutto”.

Franchetti e Sonnino promossero pure un deciso intervento contro l’analfabetismo con la nascita di scuole in città e villaggi. Lo fecero anche dal 1778 al 1882 sulle pagine de la “Rassegna Settimanale”. Tutto ciò trovò sempre l’ostacolo dei conservatori siciliani che si nascose dietro l’atteggiamento campanilistico di chi accusava i due studiosi di spocchia tipicamente settentrionale. Sostanzialmente Franchetti e Sonnino avanzarono una vera e propria condanna della Destra Storica. Nel 1876 però arrivò al potere la Sinistra Storica, e lo fece proprio con l’appoggio dei deputati siciliani e mezzi spudoratamente illeciti e quando figure chiave del baronato latifondista siciliano si ritrovarono al governo con Agostino Depretis, la riforma agraria fu messa nel cassetto.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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