Mazzarino 1960, banditi in convento
Il 16 febbraio del 1960 ordini di arresto raggiungono quattro frati cappuccini del Convento di Mazzarino a Caltanissetta.
Gli arresti vengono eseguiti in un’atmosfera di incredulità. Le imputazioni per fra Vittorio, fra Venanzio, fra Agrippino e fra Carmelo, al secolo Ugo Bonvissuto, Liborio Marotta, Antonio Jaluna e Luigi Galizia, sono gravissime: associazione a delinquere, favoreggiamento, estorsione continuata e aggravata e complicità in omicidio.
I fatti risalgono al 5 novembre del 1956 quando due colpi d’arma da fuoco si sentono nella cella di Agrippino. I carabinieri aprono le indagini, i frati vengono interrogati, ma il caso viene archiviato. Il paese però è scosso da una catena di violenza efferata. I misfatti continuano senza tregua per tre anni: estorsioni, incendi, minacce, l’omicidio del possidente Angelo Cannada e, nello sconcerto generale, alcuni testimoni attribuiscono i crimini proprio ai frati.
Le indagini si riaprono con l’arresto di Giuseppe Salemi, Girolamo Azzolina e Filippo Nicoletti. I carabinieri risalgono pure a Carmelo Lo Bartolo, giardiniere del convento, fuggito e trovato a Genova, vera mente del gruppo criminale. E non finisce qui, vengono riammanettati anche i quattro frati.
Secondo Ernesto Ruffini, Cardinale di Palermo, i frati sono vittime di un complotto anticlericale, c’è chi dice che son tutte menzogne, scende in campo anche la politica. I religiosi al processo, difesi anche da Francesco Carnelutti, eminente avvocato e giurista, raccontano di avere agito sì da intermediari ma di averlo fatto a fin di bene per evitare mali peggiori alle famiglie dei taglieggiati e di non avere mai intascato una lira delle somme riscosse e consegnate Carmelo Lo Bartolo.
Fra Carmelo, il più anziano, morì a processo in corso, la sentenza di primo grado del Tribunale di Messina assolve i frati per avere agito in “stato di necessità”, il verdetto è però ribaltato con la condanna degli altri tre frati a tredici anni. Due anni dopo, la sentenza viene però annullata per difetto di motivazione e un nuovo processo d’appello si apre a Perugia: la corte riduce la pena da tredici a otto anni e riafferma la correità dei religiosi insieme al Di Bartolo che, condannato a trent’anni di prigione, si suiciderà.
Si chiude così una delle pagini più cupe della storia siciliana.
Auotre articolo: Angelo D’Ambra
Bibliogafia: C. Miceli (a cura di), Francescanesimo e cultura nelle province di Caltanissetta ed Enna