Monte Sant’Angelo e le sue vestigia medievali

Centro di irradiazione del culto di San Michele, Monte Sant’Angelo è un gioiello tutto da scoprire.

La Via Sacra Langobardorum dal Tavoliere settentrionale si addentra nel vallone di Santa Maria di Stignano, raggiunge il convento di San Matteo, presso San Marco in Laminis, e la chiesa di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Rotondo, fino a condurre alla grotta di Monte Sant’Angelo. Qui l’arcangelo avrebbe dimorato in una grotta che, ampliata nei secoli ed arricchita con un importante santuario, ha accolto pellegrini, re e crociati in partenza per la Terra Santa ed ancora oggi è meta di un fiorente turismo religioso.

Guglielmo Appulo, nell’opera Gesta Roberti Wiscardi, narra di quaranta normanni capitanati da Riccardo d’Altavilla che, reduci dalla Terra Santa, raggiunsero il santuario nel 1016. Proprio nella grotta essi furono avvicinati da uno sconosciuto che trovarono strano, antipatico e dalle vesti effeminate. Lo sconosciuto era il longobardo Melo che, nel 1009, coi suoi uomini, aveva sottratto i territori di Bari, Andria e Trani ai bizantini per poi perdere tutto sopraffatto dalla loro controffensiva. Ai normanni Melo propose un’alleanza, vide in loro una forza formidabile da scatenare contro i rivali. Ebbe ragione, in poco più di un secolo i normanni liberarono l’intero Sud dalla presenza bizantina. Quel che Melo non poteva prevedere è che i normanni avrebbero spazzato via anche gli stessi longobardi.

Più volte saccheggiato ed anche occupato dai northman, il santuario è sempre stato meta di pellegrini. Secondo la tradizione, fu fondato dal vescovo di Siponto, Lorenzo Maiorano, sul finire del V secolo in un’area di Puglia pienamente bizantina ma destinata ad essere contesa coi Longobardi, un luogo indicatogli dall’arcangelo Michele in sogno. Pare invece più probabile che l’edificio sia sorto nella seconda metà del secolo successivo e, diventato santuario dei Longobardi, sia stato ricostruito nell’872 dopo il devastante passaggio dei Saraceni.

La grotta, insignita nei secoli del titolo di “Celeste Basilica”, fu, per lungo tempo, uno dei quattro luoghi più venerati della cristianità assieme a Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela, e l’eco delle apparizioni determinò la diffusione del culto di San Michele in Occidente.

Accolti in un atrio, la cui facciata del 1865 conserva, a destra, il portale del 1395, attraverso una scalinata rifatta nell’Ottocento si entra in un altro atrio interno fiancheggiato da sepolcri e coronato da una balconata. Di qui, per una porta in bronzo fusa a Costantinopoli nel 1076 e finemente cesellata, si accede alla basilica. La chiesa, a un’unica navata a tre campate, è stata edificata da Carlo d’Angiò di fatti sono manifeste le affinità con gli edifici angioini di Napoli e le abbazie cistercensi. Essa custodisce, sulla destra, l’altare di San Francesco, con il segno “T” che il santo tracciò nel 1216, quello con la Vergine sul retro del quale zampilla un’acqua creduta miracolosa e l’altare maggiore con la statua dell’arcangelo, con una magnifica cattedra vescovile del 1100.

Nel campanile, la cui pianta riproduce senza alcuna variazione quelle delle torri di Castel del Monte, tradizione e arte locale hanno evidente riverbero. I nomi dei due architetti, Giordano e Maroldo, consacrati in un’iscrizione coeva, documentano infatti l’influsso determinante delle maestranze locali. Pure nella camera del terzo piano, sormontata da volta ogivale e solcata da costoloni con serraglia scolpita al centro, sono evidenti i riscontri e le somiglianze col elementi analoghi del castello di Andria.

Poco distante sorge il Castello Medievale. Posto all’estremità dell’abitato, questa roccaforte permette una meravigliosa visuale sull’intero paese. Ci appare possente nelle sue forme ancora normanne col vento che fischia tra i suoi camminamenti. Ristrutturato da Federico II ed ampliato dagli aragonesi, è di fatti vuoto ma presenta ambienti di interesse architettonico come il Torrione dei Giganti, risalente al XI secolo, e le due torri circolari del XV secolo.

In effetti, Monte Sant’Angelo è oggi soprattutto una tappa lungo il pellegrinaggio che porta a San Giovanni Rotondo. Molti pellegrini affollano la grotta dell’apparizione poi raggiungono i pullman per continuare il loro tragitto e solo una parte di essi riesce a soffermarsi sulle grandi ricchezze di questo bel paese.

Andando a zonzo per le vie del borgo ci si imbatte nella Colonna a San Michele Arcangelo voluta dall’arcivescovo Alfonso Puccinelli in segno di gratitudine per aver allontanato la peste del 1656. E’ un’altra testimonianza della devozione all’arcangelo. L’intero abitato conserva ancora oggi i tratti di quelle lontane epoche, in particolare, il rione Junno, risalente al XVII secolo, è davvero suggestivo e si snoda lungo i margini di un precipizio.

Si incontrano qui due luoghi di grande interesse storico ed artistico, ovvero i contigui siti della Chiesa di San Pietro, la più antica di Monte Sant’Angelo,  e del Battistero di San Giovanni in Tumba, meglio noto come “Tomba di Rotari“.

La chiesa di San Pietro fa da passaggio per la visita al battistero, risale al V secolo quando il vescovo di Siponto ne volle la costruzione ed oggi sopravvive solo nei resti di quattro basi di colonne, dell’abside e della facciata d’ingresso col rosone. Da scavi effettuati nel pavimento della chiesa, sono state portate alla luce numerose sepolture e le tracce di un pavimento più antico.

La Tomba di Rotari, che raggiunge un’altezza di ventitre metri, si fa invece apprezzare per i bassorilievi sulla porta d’ingresso rappresentanti la passione del Signore. All’interno, capitelli compositi con figure del vecchio e nuovo testamento, colpiscono per maestosità. Essa, sorta nel XII secolo come battistero, fu poi sopraelevata. L’interno cubico è sormontato da cupola e alle pareti sono addossati quattro grandi archi ogivali.

Il nome di Rotari è legato al suo famoso Editto, la prima raccolta scritta delle leggi dei Longobardi, che vale la pena approfondire. Promulgato alla mezzanotte del 22 novembre del 643, davanti all’esercito regio raccolto a Pavia, costituisce il punto centrale dell’evoluzione giuridica e delle strutture politico-amministrative del Regno longobardo in Italia.

Leggendo l’Editto si scopre che la pena di morte era tutt’altro che frequente. Di fatti ne erano passibili solo le donne adultere o che uccidevano i mariti, gli schiavi che ammazzavano i padroni, i traditori, gli ammutinati ed i disertori. Anche quelli contro il re ed i poteri civili e militari era comminata la pena capitale ed è qui che emerge qui una netta affermazione della concezione regale dei longobardi. A prevalere in esso sono comunque i delitti privati ed è sempre evitata la vendetta o la faida col risarcimento patrimoniale. Alla base di tutto l’ordinamento vi è infatti la compositio ovvero il pagamento in moneta che pone termine alla controversia. Si giunse così a fissare una tariffa, il guidrigildo, che l’offensore era tenuto a pagare all’offeso. Era questo un segno di incivilimento dei longobardi, venuti a contatto coi latini e convertiti al cattolicesimo. Rotari stabilì un elenco di tariffe molto dettagliato, per esempio dispose che per la frattura di una costola valeva dodici soldi e che la rottura di un dente incisivo ne valeva sedici.

La procedura giudiziaria continuava però ad essere incentrata sui vecchi criteri. Per sostenere un’accusa o per difendersi dalla medesima ci si affidava al giuramento, all’ordalia o al duello. Questo rimane sicuramente l’aspetto più antico delle norme. Il pubblico potere non modifica l’antica usanza del giuramento e del duello, semplicemente la regolamenta e se ne fa  garante. Il giuramento poteva essere imposto dall’imputato al querelante perché dimostrasse la fondatezza della denuncia o dall’accusatore al presunto reo perché provasse la sua innocenza. Col giuramento, prestato sulla Bibbia, chi si era in precedenza riconosciuto colpevole, poteva persino ritrattare la propria confessione. Nelle controversie gravi era invece l’ordalia che sostituiva il giuramento e che necessitava di una grossa pentola d’acqua bollente. Sul sagrato di una chiesa, in presenza di un giudice, al cui cospetto imputato e parte lesa convenivano, dopo una messa cantata, l’imputato veniva invitato a immergere la mano destra e se l’arto subiva ustioni, l’accusa era fondata, se usciva illeso era falsa. Infine, i duelli si svolgevano in aperta campagna, dopo la lettura di un bando che comminava pene corporali a chi provocava disordini durante lo svolgimento del combattimento. Al perdente, ritenuto colpevole, si amputava la mano.

Al testo originario si aggiunsero nel corso dei secoli le disposizioni di Grimoaldo di Benevento, di Liutprando, di Astolfo, nonchè quelle convenute dai beneventani Arechi II ed Adelchi, confluite nelle Principum beneventi leges. Ciò rende anche possibile lo studio della trasformazione dell’assetto politico, sociale e culturale dei longobardi. Dall’organizzazione tribale, dalla tradizione orale della norma di legge, dalla giustizia intesa come fatto privato e personale, i longobardi erano giunti, sotto l’influsso dell’eredità di Roma e del cristianesimo, al concetto di stato, sia pure rozzamente espresso nella volontà del re, alla territorialità del diritto, alla disposizione scritta, universalmente valida.

In realtà non si sa di preciso se il re longobardo Rotari sia mai giunto a Monte Sant’Angelo, molti sono i dubbi sollevati dagli studiosi. Tuttavia gli viene attribuito un testamento nel quale avrebbe espresso il desiderio di esservi sepolto e la conferma arriva pure da Paolo Diacono che nella sua Historia Langobardorum scrive “che il re venne sepolto presso la chiesa di San Giovanni Battista”. In ogni caso il fatto che Rotari volesse essere sepolto a Monte Sant’Angelo rivela la grande importanza raggiunta nel Medioevo dal paese pugliese.

Il nostro breve itinerario può concludersi con una visita alla poco distante Chiesa di Santa Maria Maggiore, anch’essa del XII secolo. Mostra sulla facciata, ornata da arcature cieche e losanghe, un pregevole portale a baldacchino scolpito. Nell’interno, a tre navate, vi sono pregevoli capitelli e pitture a fresco di gusto orientale.

Gli affreschi mostrano San Francesco, l’Arcangelo Michele, una meravigliosa scena dell’Annunciazione, topos artistici nella Capitanata del Duecento. Probabilmente la principale attrazione resta il sontuoso portale che condensa tutte le caratteristiche del tardoromanico con decorazioni esuberanti contraddistinte da una certa durezza di intaglio.

In seguito, sotto la reggenza di Costanza d’Altavilla, madre di Federico II di Svevia, si intraprese la ristrutturazione globale della chiesa che appare così nelle forme attuali. L’interno della chiesa è a pianta basilicale latina, è diviso in tre navate. La navata centrale è coperta da una volta a semibotte. I capitelli dei pilastri sono istoriati con motivi ornamentali e decorazioni di stile bizantino. E’ indubbiamente una delle più preziose vestigia medievali di Monte Sant’Angelo.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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