Banditi ad Orgosolo

Orgosolo non è la Sardegna dei turisti, del mare, delle spiagge. E’ quella dei monti, della natura aspra, di un’anima ruvida e ostile. E’ la Barbagia dei contadini, dei pastori, dei banditi. Come nella pellicola di Vittorio De Seta.

La cerimonia di Orgosolo

In una scena che le penne del giornalismo tingono di surreale e pittoresco, il 3 gennaio del 1953, cinquanta capi famiglie di Orgosolo si ritrovarono davanti al Vescovo di Nuoro a giurare sul crocifisso. Promettono di rinunciare alla vendetta e di cooperare per la pacificazione del paese. L’iniziativa era partita dal medico e dal parroco del paese. Il patto doveva chiudere una lunga storia di tragedie, violenze e vendette. La messa poi un pranzo comune, così doveva calare finalmente il sipario sulle uccisioni e le imboscate del banditismo. La pace invece durerà pochissimo, dopo appena un mese è assassinato un carabiniere e tutto ricomincia. Sul finire di quell’anno l’ingegner Capra fu rapito e ucciso.

Non bastò il giuramento, non bastò neppure l‘invio di truppe speciali. Il fenomeno appariva forte e ben radicato. Le forze dell’ordine tentarono di tenere il controllo dell’isola. Si intensificarono blocchi stradali, le perquisizioni a uomini, vetture, case, le zone più impervie vennero battute palmo a palmo. Una coltre di silenzi e protezioni copriva i banditi.

L’Italia era forse abituata a pensare alla Sardegna come ad una terra di vecchi dagli abiti caratteristici, un’isola di pastori un po’ romantica, un po’ esotica. Invece l’isola era tappezzata di manifesti di fuorilegge ricercati dalla polizia.

Furti di bestiame

Il furto del bestiame vi era così diffuso da essere accettato e addirittura venir eletto a prova di coraggio: “Chie no furat, no est homine” cioè “Chi non ruba non è uomo”. Negli atti del Convegno sull’abigeato tenuto a Cagliari nel 1966 si legge: “Il sistema barbaricino si regge rigidamente come entro un vaso chiuso, con un complesso di istituzioni tanto più implacabili quanto minore è la quantità dei mezzi a disposizione e maggiore il rischio di perderli. Entro questo orizzonte, il furto di bestiame costituisce uno dei pochi mezzi per ottenere quella ricchezza relativa, difficilmente raggiungibile mediante il solo lavoro, con tutte le sue precarietà. Il furto, naturalmente, viene indirizzato all’esterno della comunità”. Diceva Emilio Lussu in senato: “Nel deserto a che pensa il pastore povero? A rubare. E si ispira agli esempi vicini e a quelli lontani degli avi”.

Ed evitare i furti è difficile. Una fase preliminare è il “diare” cioè l’osservazione delle abitudine dell’ovile cui segue la seconda fase in cui si addomesticava il cane facendogli annusare la “berritta”, il berretto del ladro, in modo che si abitui al suo odore. Infine si agiva ed il bestiame rubato veniva portato in zona di pascolo come per confondere le tracce, subito si passava ad indirizzare i capi alla macellazione quando non era previsto il ricatto. Così si aggiungevano le “disamistades” ovvero le vendette tra famiglie che costringevano alla latitanza, alla fuga, al nascondersi. Il posto migliore dove farlo era il Supramonte di Orgosolo, una immensa catena ad altopiano coperta da una fitta boscaglia.

Il problema di fondo era l’insufficienza del pascolo montano, la necessità della transumanza nei mesi invernali e da essa la necessità di pagare i pedaggi e le esosità dei contadini e dei proprietari ricchi. Ma poi dal furto di bestiame si passa al sequestro di persona e nella storia saltano fuori i nomi di Tandeddu e Mesina.

Tandeddu

Tandeddu fu tra i più noti. Convocato dal giudice del Tribunale di Nuoro per essere ascoltato in merito ad un tentativo di rapina cui avevano preso parte alcuni suoi amici, preferì scappare sul Supramonte. Ed è qui che iniziò la sua carriera criminosa. Nel Supramonte in quel periodo ci sono più di cento latitanti. La prima azione che coinvolge Tandeddu fu il blocco di due autocorriere sulla stradale da Seulo a Lanusei, con la banda di Liandru, un uomo di 46 anni che s’era vendicato di un’offesa fattagli dal suo principale uccidendolo. A Lanusei non si sparò, invece a Monte Maore, nell’agosto del 1949, finì con un eccidio di carabinieri che scortavano buste paga di una impresa edile. La reazione dell’Arma fu dura, caddero otto componenti della banda ed il 26 luglio del 1959, lo stesso Liandru finì catturato e fu condannato all’ergastolo. Da quel momento fu Pasquale Tandeddu il capo. Lo raggiunsero anche il fratello Pietro e lo zio Giovanni. Nell’aprile del 1950, Pasquale fece affiggere sulla porta della chiesa di Orgosolo un elenco di venticinque spie: una dopo l’altra vennero giustiziate tutte. A Sa Ferula avvenne la sua prima azione militare contro il centro della società che guidava la lotta contro la malaria e che impiegava decine di uomini nella disinfestazione delle paludi; arrivò il camion delle paga, il 9 settembre del 1950, e i banditi l’assalirono sparando e lasciando sul terreno tre cadaveri per poi fuggire con il denaro. La prima persona nel citato elenco delle spie di Tandeddu era Maddalena Soro, moglie di Liandru. Tandeddu giustiziò pure suo fratello Pietro colpevole di una relazione amorosa con una donna di Orgosolo e poi obbligò il padre di lei ad assumersi la colpa del delitto. Tandeddu fu condannato in contumacia all’ergastolo e sulla sua testa venne messa una taglia di cinque milioni di lire. Il suo errore decisivo però fu uccidere Antonia Tolu, una possidente, benvoluta dagli abitanti del posto: un giustiziere, delegato dagli orgosolesi, lo raggiunse il 27 novembre del 1954 in località Sas Molas, fu travolto da una raffica di mitra.

Mesina

Di Orgosolo era anche Graziano Mesina, detto Grazianeddu, forse il più noto dei banditi sardi. Sorpreso già a tredici anni dai carabinieri con una pistola in tasca, fu portato in caserma e da lì fuggì da una finestra. Lo riacciuffarono un mese dopo: sparava alle lampade del paese. Stavolta fu rinchiuso in guardiana, con più accortezza, ma scardinò la branda fabbricandosi una leva per aprire la porta e scappò ancora. Sua madre lo obbligò a ripresentarsi. Quando i carabinieri arrestano i suoi tre fratelli per l’omicidio di Pietrino Castra, commerciante di Berchidda, il cui cadavere era stato rinvenuto nei terreni loro in affitto, la sua vita cambiò piega. Uscito dal carcere ferì a colpi di pistola il pastore Luigi Mereu, familiare di uno degli accusatori dei suoi fratelli, e venne condannato a sedici anni di carcere. Nel frattempo i suoi tre fratelli finirono tutti prosciolti. Mesina divenne leggendario per le sue fughe, evase dal Carcere di Nuoro, fuggì pure dall’ospedale cittadino appena operato d’appendicite, rifugiandosi in un cunicolo dove restò immobile per dodici ore finché i carabinieri si allontanarono dall’area senza più sospetti. Lo ripresero il 12 novembre del 1962 in una osteria di Orgosolo dove accade l’impensabile: tre uomini del clan Muscau, che hanno ucciso un fratello di Mesina, erano lì a mangiare quando Graziano irruppe e sparò uccidendo uno dei tre. Il bandito allora uscì ma temendo di non aver finito la sua vittima rientrò per completare tutto, fu così che venne disarmato e consegnato ai carabinieri. Gli diedero quarantadue anni di carcere ma evase l’11 settembre del 1966 dal carcere di Sassari. Con lui a scavalcare il muro del penitenziario c’era anche lo spagnolo Atienza, disertore della Legione Straniera che, fuggito dalla Corsica, arrivò in Sardegna e venne arrestato a Cagliari per furto di automobile. Assieme ritornarono in città salutando la gente che li riconosceva. Presero un taxi, percorsero la strada del carcere, un blocco di carabinieri li fermò pure ma non li riconobbe. Intanto la notizia induceva già i nemici di Graziano ad armarsi. Mesina però pensava ad altro, puntò ad organizzare un banditismo moderno incentrato sui sequestri di persona. E si mise subito all’opera. Il 12 febbraio toccò al primario dell’Ospedale civile di Nuoro, il prof. Serafino Manca. Fu sequestrato col figlio, i banditi successivamente lo liberarono e tennero solo il bambino. Rapirono il proprietario terriero Paolo Mossa poi Peppino Capelli. Commerciante di carni, Capelli fu fermato con la sua scorta da un blocco di poliziotti che in realtà erano uomini della banda Mesina. In pochi mesi alla banda vennero attribuiti i sequestri Campus, Petretto, Moralis, Canetto, Papandrea. Il Ministero degli Interni promise una taglia di dieci milioni per la cattura del fuorilegge, ma intanto Mesina diventava una leggenda, incontrava giornalisti, rilasciava interviste e continuava con successo i suoi sequestri, in tutta calma. Sull’isola furono inviati i Baschi blu, un reparto speciale della Polizia di Stato creato ad hoc per l’antibanditismo. Settanta persone di Orgosolo vennero stipendiate per dare informazioni su Mesina. La taglia sulla tua testa era così alta che qualcuno tentò di catturarlo ma lui capì sempre l’inganno però si fece arrestare nel più banale dei modi: da un blocco di polizia stradale in viaggio con l’amico Raffaele Pisanu. Atienza era già stato ucciso l’anno prima. Da questo momento in poi per Graziano Mesina ebbe inizio un lungo periodo di detenzione in diverse carceri italiane. Una lunga storia carica anche di colpi di scena. Nel 1992, durante la vicenda del sequestro del piccolo Farouk Kassam, Graziano Mesina fece da mediatore ed ottenne la libertà condizionale. Sospettato di progettare un nuovo sequestro di persona, venne nuovamente incarcerato fino all’ottenimento della grazia da Ciampi. Da uomo libero, Mesina divenne guida turistica e così sembrava tutto finito, un finale roseo, ed invece, a 71 anni, Mesina venne ancora arrestato, ancora per il progetto di un sequestro di persona. Il 12 dicembre 2016 è stato condannato a trenta anni di reclusione dal Tribunale di Cagliari.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

Bibliografia:

Franco Cagnetta, Inchiesta ad Orgosolo

Emanuele Boccianti, Sabrina Ramacci, Italia giallo e nera

Giovanni Ricci, La Sardegna dei sequestri

Gianmichele Lisai, Misteri e storie insolite della Sardegna

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