Papa Adriano VI

Adriano VI avrebbe potuto essere un grande papa. Avverso agli sprechi ed ostile alla corruzione della curia, onesto nell’ammettere la dissolutezza dei suoi membri e fermo nel volerla combattere per rispondere così al diffondersi del luteranesimo, apparve debole ai membri della Dieta di Norimberga e tutta la sua politica andò in frantumi davanti al rinnovarsi delle ostilità tra Francia e Spagna.

Questa storia inizia il mattino del 2 dicembre 1521. Cinquanta salve d’artiglieria ed i mesti rintocchi delle campane del Campidoglio annunciavano la morte di Leone X. Le strade di Roma in un baleno si riempirono di gente e tra di essi, a stento, si aprirono un varco ventinove cardinali presenti in città per raggiungere, in tutta fretta, il palazzo apostolico. Il duca di Ferrara esultò. Per l’occasione fece coniare una medaglia su cui si poteva leggere: “De manu Leonis”, poi preparò il suo esercito per recuperae le terre che ll papa mediceo gli aveva tolto. Egual cosa fecero il duca di Urbino e i Baglioni di Perugia. Nel frattempo ai porporati presenti andavano via via aggiungendosi gli assenti ed essi divenivano l’oggetto delle trame del cardinale Giulio de Medici che voleva farsi eleggere papa. Fu un incidente diplomatico a rovinargli i calcoli: il cardinale Bonifacio Ferreri, vescovo d’Ivrea, fu fatto prigioniero a Pavia dal duca Francesco Sforza, appena rientrato in possesso dei propri stati, che il re di Francia, sei anni prima, aveva occupato. Esecutore dell’arresto era stato un certo Todeschino, mastro di stalla del cardinale Medici, e così in seno al Sacro Collegio si scatenò il putiferio. Colsero l’occasione proprizia gli avversari del Medici che ne infangarono l’immagine. Giulio era troppo vicino alla Spagna.

Il vescovo di Cesena riuscì ad ottenere la liberazione del Ferreri e, fatte le esequie del defunto papa, i cardinali entrarono in conclave. Vi restarono per tredici giorni, fino a quando il Medici, tartassato dai suoi oppositori, fece un passo indietro, accontentandosi di indicare l’elezione del cardinale di Tortosa e Inquisitore generale d’Aragona. Si trattava di Adriano Florizse. Figlio di un umile artigiano di Utrecht, il nuovo papa prese il nome di Adriano VI.

Il pontefice aveva, in gioventù, studiato all’Università di Lovanio, aiutato da qualche benefattore, e, con la protezzione della duchessa Margherita, vedova di Carlo il Temerario, aveva ottenuto dei benefici che gli erano stati molto utili per vivere con decoro. Era poi divenuto cancelliere e rettore dell’università, nonché pedagogo, e poi ministro, dell’imperatore Carlo V. Era stato proprio l’Asburgo a fargli ottenere il cappello cardinalizio da Leone X. Anche Adriano, dunque, era un uomo della Spagna. In virtù di ciò Giulio de Medici l’aveva proposto in conclave. Francesco I restava così sconfitto ed indiganto. Fu forse merito dei suoi intrighi se la curia pontificia, per ben due volte, negò al novello papa l’anello del pescatore con cui avrebbe potuto immediatamente esercitare le sue funzioni, dalle province basche, dove si trovava.

Adriano sapeva dell’ostilità dei francesi e necessitò di tempo per riunire un’armata navale che avrebbe potuto condurlo, in tutta sicurezza, ad Ostia. Vi giunse il 28 agosto del 1522 e dopo tre giorni ricevette il triregno. In città, da due mesi, infuriava la peste, ma ciò non lo intimorì. Si rinchiuse per qualche tempo in Belvedere e sospese le udienze, ma subito si mise all’opera.

Il suo primo intento fu quello di troncare le spese inutili della sua corte. Fu solerte nel farlo: delle opere pubbliche iniziate dai suoi predecessori fece continuare solo i lavori alla Basilica di San Pietro; tentò di gestire in prima persona ogni affare, per prevenire spese sbagliate e frenare rivoli di denaro elargito da funzionari corrotti, ma, per conoscere tutto, i tempi della burocrazia aumentarono e le suppliche si accumularono; ridusse di molto gli stipendi dei grandi artisti ed in parecchi preferirono lasciare Roma. La tristissima condizione in cui trovò l’erario statale lo attanagliò sempre. Non volle contrarre altri debiti, ma provare almeno a pagare quelli contratti dal suo predecessore. Così negò soccorso ai cavalieri gerosolimitani contro i turchi e finì per apparire avaro ai romani.

Non migliori furono i rapporti che riuscì a costruire con i principi d’Europa. Appena insediato, volse il suo pensiero alla Germania afflitta dal diffondersi del luteranesimo. Si affrettò ad inviare un suo nunzio, Francesco Chieregati, alla Dieta di Norimberga, precisando che dall’arciduca Ferdinando si aspettava una totale collaborazione nel combattere l’eresia. Chieregati intervenne nel dibattito più ampio, ma gli animi dei convenuti non restarono particolarmente colpiti, anzi, quando confessò la corruzione della Chiesa promettendo l’impiego del pontefice per un completo risanamento dei costumi, i partecipanti iniziarono a gettare scherno sul papa ed a prestare orecchio a Lutero che aveva definito Adriano VI un somaro coronato dall’università di Lovanio.

Anche in Svizzera le cose andarono male per il papa. Vi aveva mandato Ennio Filonardi per provare a ristablire la pace con Ulrico Zwingli che invece gli chiuse le porte in faccia, mentre Erasmo da Rotterdam, pur confermando la sua fede, non prese posizione a favore del papa, tra l’altro suo maestro. Infine anche Gustavo di Svezia, quando non ottenne la destituzione dell’arcivescovo di Upsala, abbracciò il protestantesimo.

Adriano VI provò allora, con una bolla, ad imporre la pace tra i principi cattolici con una tregua di tre anni tra Francesco e Carlo, minacciando di scomunica chi la violasse, ma il re di Francia rispose con una lettera in cui giunse a minacciare il pontefice di fargli fare la fine di Bonifacio VIII e ritirò i suoi ambasciatori presso la Santa Sede. Ne approfittò Carlo V per indurre Roma a schierarsi contro i francesi nella lega che univa l’Impero all’Inghilterra di Enrico VIII e a Venezia. L’intera politica di Adriano VI poteva dirsi fallita. Il papa precipitò in un grave malumore che, nell’estate del 1523, pochi giorni dopo la pubblicazione del patto antifrancese, si tradusse in febbri da cui non riuscì più a liberarsi. Capì di essere prossimo alla morte e si assicurò che alla sua famiglia non pervenisse nulla all’infuori di ciò che possedeva prima di salire al soglio di Pietro, destinando il restante dei suoi averi ad opere di beneficenza. Nelle sue esequie – stabilì pure – non si dovevano spendere che venticinque ducati. Un epitaffio posto nella sua sepoltura provvisoria in San Pietro lo salutava così: “Qui giace papa Adriano Sesto, i lquale non si riputava avere altra disgrazia, se non ch’era un signore”.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografi: P. Pecchiai, Roma nel Cinquecento in Storia di Roma, volume XIII

 

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