Paul-Louis Courier in Calabria

Paul-Louis Courier, soldato e grecista francese, fu più volte in Italia. In una di queste occasioni, era il 1807, scrisse la seguente lettera da cui estraiamo questo divertente aneddoto di Calabria.

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Un giorno, io viaggiava in Calabria. È questo un paese di gente trista, che, a parer mio, non amano nessuno al mondo, ed odiano specialmente i Francesi. Richiederebbe troppe parole dirvi perchè; basti il sapere che ci detestano a morte, e ben meschino è colui che cade nelle loro mani. Avea per compagno un giovanetto, la cui figura. . . davvero, come quel signore che vedemmo a Rincy; ve ne ricordate? e peggio ancora. In quelle montagne, le strade sono precipizii; i nostri cavalli camminavano a gran fatica; siccome il mio camerata andava innanzi, un sentiero che gli parve più corto e più agevole, ci traviò. La colpa è mia; doveva fidarmi ad un cervello di venti anni? Mentre fu chiaro, cercammo il nostro cammino traverso que boschi; ma più cercavamo, più ci perdevamo, e facea notte buia quando giungemmo presso una casa nerissima. Vi entrammo, non senza sospetto, ma come fare altrimenti? Là trovammo un’intera famiglia di carbonai a tavola, e fummo senz’indugio invitati. Il mio compagno non si fece pregare; ed eccoci a mangiare, a bere, almeno lui, perchè, quanto a me, stava esaminando il luogo e il taglio dei nostri ospiti. Costoro avevano, è vero, aspetto di carbonai; ma la casa, l’avreste presa per un arsenale, ingombra, come era, di fucili, di sciabole, di pistole, coltelli, coltellacci. Tutto mi dispiacque, e ben mi accorsi che anch’io dispiaceva. Invece, il mio compagno, era della famiglia, rideva, chiaccherava; e con una imprudenza, che avrei dovuto prevedere (ma che! era scritto così!), disse fin da principio, donde eravamo, chi eravamo e dove andavamo; Francesi, immaginatevi un poco! in casa del nostri più mortali nemici, soli, smarriti, così lontani da ogni umano soccorso! e quindi, per nulla omettere di quanto potea ruinarci, si spacciò per ricco, promise a quella gente per la spesa, e per le nostre guide al domani, ciò che vollero. Da ultimo, parlò della sua valigia, pregandoli caldamente ad averne gran cura, a collocarla alla testa del suo letto, non voler egli miglior guanciale. Ah gioventù! gioventù! l’età vostra è pur da compiangersi; cugina, si credette che portassimo i diamanti della corona: ciò che gli cagionava così viva sollecitudine per quella valigia, erano le lettere della sua bella che vi aveva riposte. Finita cena, ci lasciarono; i nostri ospiti si coricarono a pian terreno, noi nella camera superiore dove avevamo mangiato; un soppalco alto sette od olto piedi, cui si montava per mezzo di una scaletta, era la camera da letto che ci aspettava, specie di nido dove si penetrava strisciando sotto alcuni travi che erano sopraccarichi delle provvigioni per tutto l’anno. Il mio compagno vi si arrampicò solo, e si addormentò saporitissimamente, appoggiando il capo sulla preziosa valigia. Quanto a me, risoluto di vegliare, feci buon fuoco e vi sedetti vicino. La notte era già scorsa quasi tutta tranquillamente, e cominciava a riassicurarmi, quando, mentre credeva che il giorno non tarderebbe ad albeggiare, intesi sotto di me il nostro ospite parlar sommesso con sua moglie e disputar fra di loro; oregliando dal camino che comunicava con quello del pian terreno, distinsi perfettamente queste parole del marito: Ebbene, vediamo, bisogna ucciderli tutti due? Al che la donna rispose: Si, e non intesi più nulla. Che vi dirò? Fiatava appena, colle membra fredde come marmo; a vedermi, non avreste saputo distinguere se io fossi vivo o morto. Dio! quando vi penso ancora adesso ! … Noi due quasi senza armi, contro essi, dodici o quindici che ne avevano tante! E il mio camerata morto di fatica e di sonno! Chiamarlo, far rumore, non ardiva; fuggire io solo, nol poteva; la finestra non era guari alta; ma due grossi mastini al dissotto mugulavano come lupi… In quale angoscia mi travagliassi, potete immaginarlo. A capo di un quarto d’ora, che fu ben lungo, sento qualcuno sulla scaletta, e dalle fessure della porta, veggo il padre, colla sua lampada da una mano, e un gran coltellaccio dall’altra. La moglie lo seguitava; io mi tenni rannicchiato dietro la porta; il marito l’aperse; ma prima d’entrare, pose a terra la lampada che sua moglie venne a prendere; quindi egli si fe innanzi a piè scalzi, mentre la donna gli susurrava sommessamente, mascherando colle dita il soverchio del lume della lampada: Piano, va piano. Quando egli fu presso la scaletta, la monta, col coltello fra i denti, e giunto all’altezza del letto dove quel povero giovanetto offria scoperta la gola, prende con una mano il coltello, e coll’altra . . . Ah! cugina ! . . afferra un gran presciutto che pendea dall’assito, ne taglia un pezzo, e si ritira tacitamente come era venuto. La porta si rinchiude, la lampada scomparisce ed io resto solo colle mie riflessioni. Appena comparve il giorno, tutta la famiglia, con gran fracasso, ci venne a risvegliare, come avevamo raccomandato. Ci portano da mangiare, si imbandisce una colazione pulitissima, saporitissima, ve ne assicuro. Ne facean parte due capponi, di cui bisognava, disse la buona donna, mangiar l’uno e portar via l’altro. Nel vederli, compresi finalmente il senso di quelle terribili parole: bisogna ucciderli amendue? E vi credo, cugina mia, abbastanza accorta, per aver già compreso ciò che volessero significare.

 

 

 

(tratto da Teatro Universale, 22 Gennaio 1848)

Fonte foto: dalla rete

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