Protezione antiaerea italiana nella Seconda Guerra Mondiale

I bombardamenti sulle città italiane della Seconda Guerra Mondiale iniziarono l’11 giugno 1940, circa 24 ore dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, mentre le ultime bombe caddero all’inizio di maggio 1945 sulle truppe tedesche in ritirata verso il Brennero. Nei cinque anni che passarono tra queste due date, quasi ogni città italiana fu bombardata. I centri industriali del nord come Genova, Milano e Torino subirono più di 50 attacchi ciascuno; le città portuali del sud, come Messina e Napoli, più di un centinaio.

Le vittime dei bombardamenti furono 64354 (di cui 59796 civili, circa 20000 prima dell’armistizio e 43402 dopo) a titolo di paragone le vittime inglesi di bombardamenti aerei furono 60595 mentre i bombardamenti alleati causarono 353000 vittime civili in Germania e 67078 in Francia. Non ho alcuna intenzione di addentrami sulla querelle della liceità dei bombardamenti ma solo parlare di come in Italia si cercò di proteggere la popolazione civile e il nostro patrimonio artistico e le aziende e magari onorare il ricordo dei tanti che lottarono per salvare vite in quegli anni terribili.

Per organizzare la difesa della popolazione e del patrimonio artistico operavano una commissione centrale interministeriale e 94 commissioni provinciali di protezione antiaerea composte da rappresentanti del PNF, di prefetture questure e comuni, dei comitati di mobilitazione civile, delle poste e telegrafi, delle ferrovie degli ordini degli ingegneri, della croce rossa, dei vigili del fuoco, delle aziende più importanti e delle belle arti che davano direttive per lo sfollamento delle città e dei musei e la protezione delle opere d’arte, per il mascheramento degli obiettivi e sulle modalità di costruzione degli edifici e per i piani urbanistici al fine di massimizzare la resistenza di edifici e della viabilità alle offese aeree e la predisposizione di rifugi.

Per la difesa della popolazione questi comitati si avvalevano di vari enti.

Le forze di polizia erano responsabili del servizio ordine pubblico cioè dovevano assicurare che le ordinanze di oscuramento, di sgombro e le disposizioni di sfollamento e decentramento di materiale e persone venissero eseguite. durante le incursioni assicurare che le strade venissero sgombrate e dopo le incursioni reprimere atti di sciacallaggio e saccheggio e assicurare che la popolazione si allontanasse ordinatamente dalle zone colpite.

La Croce Rossa coi suoi 226000 iscritti doveva assicurare il servizio di protezione sanitaria antiaerea e mobilitò 61 direzioni centrali di protezione sanitaria 56 posti di soccorso ferroviari e portuali 26 squadre di soccorso interprovinciali 300 squadre di pronto soccorso 133 centri di prima cura e smistamento feriti 84 centri di cura antigas 132 centri di bonifica umana antigas e 155 squadre di bonifica zone infette.

L’unione nazionale protezione antiaerea UNPA che nel 1937 aveva 150000 iscritti doveva organizzare corsi per i volontari che affiancavano i vigili del fuoco istruire la popolazione civile su come comportarsi durante le incursioni e organizzare i volontari in squadre che cooperassero ai soccorsi e allo sgombro delle macerie individuare le strutture atte ad essere trasformate in rifugi.

La protezione antincendio era affidata al Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco organizzato in corpi provinciali e distaccamenti che ai suoi 7715 militi permanenti unì 10000 mobilitati per un totale di 17715 uomini muniti di 3000 automezzi.

Al 30 maggio 1940, nell’imminenza dell’entrata in guerra, il Corpo Nazionale si avvaleva di 95 Corpi Provinciali ai quali si aggiungevano quelli delle Provincie d’oltremare del Regno (Tirana, Tripoli, Bengasi, Derna, Misurata), quello di Rodi e quelli dell’impero (Addis Abeba, Massaua, Asmara e Mogadiscio).

Al Corpo Nazionale si affiancavano, quali organismi ausiliari:

  • U.N.P.A. (Unione Protezione Nazionale Antiaerea) composta da uomini oltre i 45 anni di età senza obblighi militari;
  • le S.P.A.A. (Squadre di protezione Antiaerea) composte da uomini di ogni età senza obblighi militari e organizzate dai Comuni;
  • le S.P.A. (Squadre di Protezione Agricola) composta da uomini ultracinquantenni nei comuni agricoli;
  • la G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) che poneva a disposizione le squadre Volontari Ausiliari (età tra i 14 e i 18 anni, accettati previa visita medica e un corso di sessanta giorni presso i Corpi VV.F.); per un totale di 68749 ragazzi;
  • le squadre Volontari Ciclisti e Portaordini (età tra i 12 e i 14 anni) addestrati solo a lunghi percorsi in bicicletta con prevedibile impiego in caso di cessazione del servizio telefonico;
  • Squadre di Stabilimento composte da operai addestrati presso i Corpi VV.F. con un corso di venti giorni;
  • Squadre Comunali di autoprotezione composte da operai specializzati dipendenti dalle civiche amministrazioni (acquedotti, elettricità ecc.).

Tutte queste organizzazioni ausiliarie, salvo i Ciclisti porta-ordini, erano dotate di elmetto militare, cinturone con picozzino, tuta grigia, maschera antigas e calzature militari, il tutto distribuito dal Ministero degli Interni utilizzando materiale militare fuori servizio e quello recuperato dai cessati Corpi Pompieri locali.

Il Corpo VVFF di Milano, mirabilmente coadiuvato dalle organizzazioni ausiliarie, ebbe il merito di aver impedito che si effettuasse quel “torrente di fuoco” che l’aviazione angloamericana aveva studiato per distruggere la città e che ebbe il suo tragico effetto su Amburgo ed Anversa e Dresda. A Milano, l’opera dei Vigili del Fuoco che riuscirono a spegnere i focolai in cinque ore, impedì il formarsi della terribile “corrente ignea” e perfino Radio Londra, riconobbe l’eccezionale coraggio e l’alta professionalità degli ”italians firemen”.

In ciò furono aiutati dalle tecniche costruttive italiane che da sempre privilegiavano pietra mattoni e cemento armato con un ridotto uso di legname e altri infiammabili e il fatto che i palazzi moderni erano ben costruiti e progettati e pur sventrati dalle esplosioni di solito resistevano e non crollavano permettendo a chi si fosse rifugiato nelle cantine di sopravvivere e allontanarsi.

L’organizzazione prevedeva per i centri sopra i 30000 abitanti dei comandi comunali di protezione antiaerea alle cui dipendenze si trovavano:

-La questura e il comando CCRR per l’ordine pubblico;

-il comando dei VVFF e le squadre di artificieri messe a disposizione dalle forze armate con colonne mobili di pronto intervento per lo spegnimento incendi di grandi dimensioni, il salvataggio delle persone intrappolate anche con l’uso di cani e l’eliminazione delle bombe inesplose;

-il Genio civile da cui dipendevano le Squadre Comunali di autoprotezione (per il riprestino delle tubature di gas e acqua,delle linee telefoniche ed elettriche) e le squadre di volontari comunali per lo sgombro delle macerie la demolizione degli edifici pericolanti e il puntellamento di quelli danneggiati;

-Gli ospedali per la cura dei feriti gravi che dovevano anche organizzare sedi fuori città ove evacuare i feriti per assicurare una tranquilla degenza;

-La compagnia dell’UNPA organizzata a sua volta in comandi Rionali.

 

COMANDI RIONALI

Comando con osservatorio da dove individuare le zone colpite e indirizzare le squadre di soccorso e una squadra collegamenti della GIL (9 ragazzi muniti di moto e biciclette)

1 Posto di soccorso Vigili con 1 ricovero per il personale e 2 o più squadre di Volontari antincendio o VVFF

1 Posto di soccorso Sanitario con 1 ricovero, 2 o più squdre di soccorso con ambulanze 1 posto di medicazione per la cura dei feriti lievi e lo smistamento di quelli gravi

1 stabilimento di bonifica umana

1 squadra di bonifica zone infette

A questi volontari si dovevano unire i capi fabbricato (uno per condominio) che dovevano, coadiuvati dal portiere, assicurarsi che in caso di allarme i condomini raggiungessero il rifugio, chiudere il rubinetto del gas e eventualmente assicurare una rapida evacuazione dell’immobile.

Altra figura che si rivelò utile furono i Guardiani del fuoco cioè alcuni condomini che dopo un breve addestramento vennero muniti di estintori e sabbia per neutralizzare piccoli incendi e spezzoni incendiari prima che potessero fare danni.

Porti, stazioni ferroviarie e stabilimenti industriali dovevano organizzare ciascuno rifugi, 1 posto di soccorso, 1 squadra antincendio che dovevano cooperare con le squadre di soccorso generali una volta assicurata la sicurezza delle strutture loro affidate.

Per i centri sotto i 30000 abitanti doveva essere organizzato un posto di pronto soccorso e 1 gruppo squadre del servizio di protezione antiaerea con almeno 1 capogruppo, 3 squadre di soccorso, 1 squadra sanitaria, 1 squadra tecnica tutte composte di 10 volontari uomini e donne.

Nei piccoli centri il comune doveva organizzare 1 Squadra di Protezione Agricola (SPA) di consistenza variabile.

Come esempi a Faenza la città era divisa in 10 settori con 2 ospedali 4 posti di soccorso 3 squadre UNPA di soccorso alcune squadre di operai specializzati e i VVFF.

A Bologna la compagnia UNPA era composta da un comando e 9 squadre con 250 volontari e il comune aveva organizzato 12 altre squadre di volontari con 500 componenti.

A Udine per l’ordine pubblico c’erano la questura e 3 distaccamenti (stazioni CCRR e Vigili urbani) per l’antincendio la caserma VVFF e 2 distaccamenti, per la protezione sanitaria 1 ospedale 2 posti di soccorso e 1 ospedale decentrato fuori città e l’UNPA organizzata su 2 gruppi rionali e 228 volontari. in tutta la provincia c’erano 15 squadre di soccorso con 408 volontari e 500 capi fabbricato.

Dove si riparava la popolazione civile durante gli allarmi aerei e i bombardamenti? Negli anni precedenti alla guerra iniziano ad essere allestiti dei rifugi antiaerei, che la propaganda di regime decide ad un certo punto di chiamare ricoveri, ritenendo che questa definizione risulti meno preoccupante per la cittadinanza. Il loro numero non permetteva il ricovero della totalità della popolazione, si era molto lontani da ciò ed era un obiettivo irraggiungibile, e la soluzione era individuata nello sfollamento dei centri abitati maggiori trasferendo I residenti nelle campagne o nei centri minori presumibilmente meno minacciati.

Con il Regio Decreto Legge n. 2121 del 1936 la realizzazione di ricoveri privati diviene addirittura obbligatoria per gli edifici residenziali di nuova costruzione.

Diversi sono i gradi di protezione offerti dai rifugi per i civili: vi è comunque la consapevolezza che gli effetti delle bombe di grandi dimensioni sono tali da richiedere “notevoli masse di cemento armato, o caverne in terreno molto compatto, le une e le altre troppo costose ed ingombranti, specie in città”. L’idea di fondo del regime fu quindi di realizzare “ricoveri, piccoli, numerosi, variamente dislocati ed adattati alle condizioni locali”, questo perché ci si rendeva conto che: “non sarà generalmente possibile costruire ricoveri alla prova contro le bombe più grosse, che hanno parecchie centinaia di Kg di potente esplosivo… Bisognerà quindi adattarsi a considerare il colpo in pieno delle bombe maggiori come eccezionale, e provvedere a ripararsi solo dagli effetti complementari di queste (proiezione di schegge e detriti, incendi, moti d’aria, ecc.) e dalle bombe minori (fino a 100 Kg)”.

RIFUGI PUBBLICI COLLETTIVI ATTREZZATI – Possono essere realizzati ex-novo, con forme e dimensioni diverse, ma sempre dotati di almeno due accessi, oppure riadattando ambienti sotterranei di scuole, Ministeri, uffici pubblici. Sono dotati di porte antigas in ferro e sistemi di filtraggio e ricambio d’aria.

RIFUGI PRIVATI – Si distinguono in normali o casalinghi di circostanza, a seconda se le tecniche di costruzione rientrino o meno nelle disposizioni previste dalle leggi del 1936. Nei fabbricati già esistenti, sono realizzati riadattando cantine, seminterrati, scantinati e le cosiddette “fontane”, ambienti con vasche usati per fare il bucato che sono rinforzati e puntellati con strutture di legno. Questi luoghi devono garantire sufficiente areazione, illuminazione e uscita di sicurezza. Inoltre devono essere dotati di cassette di medicinali, vasi igienici, panche, badili, picconi.

I rifugi si distinguono inoltre, in base ai sistemi adottati per la protezione rispetto ai gas:

 

RIFUGI A TENUTA D’ARIA – I locali sono completamente stagni rispetto all’esterno, e non vi è ricambio d’aria; per avere un ordine di grandezza, in una stanza di 3x4x3 metri, pari a 36 metri cubi, una famiglia di due adulti e due bambini può sopravvivere per circa 9 ore;

RIFUGI A RIGENERAZIONE D’ARIA – I locali risultano sempre stagni rispetto all’aria esterna ma in più sono dotati di un sistema che permette di respirare l’aria contenuta nel locale, continuamente rigenerata da un dispositivo che fornisce l’ossigeno necessario, assorbendo l’anidride carbonica ed il vapore acqueo prodotto dalla respirazione. Viene considerata la soluzione ottimale, anche le sostanze rigeneratrici sono particolarmente costose;

RIFUGI A FILTRAZIONE D’ARIA – L’aria esterna, immessa, grazie a particolari filtri, è depurata da agenti chimici;

RIFUGI MISTI – Sono quelli a filtrazione o a rigenerazione d’aria, separate o abbinate, secondo le esigenze contingenti.

RICOVERO ANTIAEREO CIVILE

La custodia del ricovero è affidata al capo-fabbricato, una persona scelta fra uno degli inquilini che deve verificare le condizioni igieniche e di sicurezza, la presenza di secchi d’acqua e sabbia, picconi, e pale; deve inoltre controllare che, al segnale d’allarme, il portone di accesso al ricovero che si trova fronte strada venga immediatamente aperto per consentire l’accesso anche ai passanti. Inoltre deve assicurarsi che nessun materiale combustibile sia lasciato nei sottotetti.

Le autorità, consapevoli dell’inadeguatezza di molti stabili, consigliano, nel caso non sia possibile allestire ricoveri negli scantinati, di costruire trincee nei cortili, nei giardini o nei terreni adiacenti. In casi estremi, bisogna rifugiarsi ai piani inferiori presso le porte o gli angoli dei muri maestri.

Il numero di rifugi, limitato rispetto alla popolazione, è dovuto anche alla presenza nel sottosuolo di Roma di estese cave di tufo e pozzolana. Questi fitti reticoli di gallerie, insieme anche alle catacombe, sono utilizzati regolarmente come rifugi di fortuna e spesso attrezzati con impianti elettrici e con muri d’ingresso trasversali per dissipare le onde d’urto.

Una considerazione dell’ing. Secchi, stilata nel 1938, quindi un paio d’anni prima dell’ingresso dell’Italia in guerra, ci fornisce una prima indicazione sulla situazione a Milano: “La mia esposizione ha cercato di dare soprattutto l’idea di quanto è stato fatto nei diversi campi delle costruzioni milanesi, di questa città che ritengo sia all’avanguardia delle costruzioni protettive private, perché sino ad oggi sono stati costruiti 450 ricoveri (sia pubblici, sia privati) per una capienza complessiva di 17.000 persone”. Poca cosa per una città di 1.200.000 abitanti.

A dicembre del 1944, i rifugi pubblici di Torino sono 137, possono accogliere 46.402 persone; i rifugi “casalinghi”, indicati con una “R” bianca vicino al portone, vengono divisi in due categorie: 955 quelli normali, per 41.222 persone, e 15.076 quelli di circostanza. La capienza della totalità dei rifugi consente di proteggere solo il 15% della popolazione e alla fine della guerra alcuni ricoveri sono ancora in costruzione.

A Bologna la situazione è composta da 129 ricoveri pubblici, 702 ricoveri privati, 5 campi di baracche per sfollati, 36 rifugi in galleria, 12 trincee all’aperto rinforzate con legname o più raramente con mattoni, 32 trincee tubolari (le due tipologie di trincee erano spesso una il seguito dell’altra), 16 vasche idriche antincendio, oltre 500 pozzi. La capienza complessiva dei rifugi in galleria è di 26000 posti a cui si aggiungono 100.000 posti nelle gallerie della pedemontana (credo al servizio degli sfollati)

 

Nel 1944 gli udinesi disponevano di 22 rifugi e di 16 trincee antischegge dislocate fuori dal centro storico.

A Pisa nel 43 nei rifugi c’era posto per 10000 persone (un quarto della popolazione)

Questi uomini e donne hanno lottato per 5 terribili anni salvando vite e cercando di proteggere case e monumenti rischiando molto e con un tributo di sangue non indifferente e vanno ricordati mi dispiace terribilmente di poterlo fare con queste poche parole perché sulla loro lotta si trova pochissimo

 

Autore articolo: Gianluca Bertozzi, laureato in Giurisprudenza, è studioso di storia militare

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