Riflessioni su “Cosa Nostra”: un proto maxiprocesso nel 1938

La storia di “Cosa Nostra” presenta momenti di grande interesse. L’argomento e le questioni che stiamo per presentare trovano il suo massimo esponente nella figura del prof. Salvatore Lupo, il quale prima di tutti affrontò lo studio e l’esegesi delle relative fonti conservate nell’Archivio di Stato di Palermo (da qui in poi ASP), dalle quali si evince, a partire dai primi del ‘900, una conoscenza molto dettagliata, da parte delle istituzioni dello Stato, del fenomeno mafioso. La fonte principale, che supporta la suddetta affermazione si trova nell’ASP, al fondo Questura di Palermo volume 2196, è un documento fondamentale intitolato “Associazione per delinquere scoperta nell’agro palermitano” dal quale si evince come 175 soggetti legati alla mafia vennero denunciati e condannati, ma cosa ancor più interessante, leggendo i cognomi degli imputati al suo interno, è l’omonimia di costoro con buona parte degli imputati nel più famoso maxi-processo alla mafia degli anni ‘80 del ‘900. Tralasciando questo aspetto, ciò che è peculiare, leggendo le prime quindici pagine del suddetto documento, è la profonda conoscenza del fenomeno mafioso da parte della Questura palermitana, che apre il verbale del processo così:

Nonostante tutte le ondate di provvedimenti di polizia e giudiziari più o meno energiche ed a proporzioni più o meno vasta, che si sono susseguite, l’organizzazione criminosa, conosciuta da secoli in Sicilia ed altrove sotto il nome generico di “mafia”, ha sempre resistito a tutti i colpi e non ha mai cessato realmente di esistere. […] Questa sua indubbia esistenza nell’isola, e diciamo anche all’estero, non è stata mai astratta o immaginaria, ma reale, evidente, palpitante e da tutti sentita, vista e temuta.

Un inizio così, in un così autorevole documento, ha fatto crollare un assunto che per noi era quasi un dogma (così come per la maggior parte dei palermitani e siciliani): “La mafia si è cominciata a conoscere nel profondo grazie all’operato dei due giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, un dogma che crolla ancora di più proseguendo la lettura e l’analisi del documento.

Premettiamo, a questo punto, dato che stiamo cominciando a introdurre questioni spinose, che con le seguenti parole non intendiamo infangare l’operato e la memoria dei due giudici palermitani, al contrario, in quanto storici ne vogliamo preservare la memoria e l’operato avendo come obiettivo e nel cuore solamente la ricerca della verità, e la verità che promana da un documento del genere è inoppugnabile.

Un altro falso storico, chiamiamolo così, sta nel credere che con il dott. Falcone sia iniziato il fenomeno dei “collaboratori di giustizia” (cd. pentiti). Dopo la sua attività il fenomeno del pentitismo dilagò, ma con nostro grande stupore, durante l’analisi del volume 2196, avendo sempre in mente l’assunto che, prima dei due giudici, della mafia “si sapeva poco o nulla”, abbiamo appreso che un tale Arturo Mingoia (noto malavitoso dell’epoca), dopo aver subito un attentato alla sua vita, si recò alla polizia e cominciò a “parlare” (però solamente in parte), dopo di ciò si trasferì a Napoli temendo sicuramente delle ritorsioni in seguito alle sue dichiarazioni:

Sopraffatto e invigliacchito per l’attentato alla sua vita, l’Arturo Mingoia, nonostante la sua pericolosità e l’incondizionato appoggio che gli proveniva dal famoso Grillo, suo suocero, svelò allora in parte i fatti, che ritenne conveniente far noti, alla polizia e fuggì dalla Sicilia, stabilendosi a Napoli.

Dato ancor più strabiliante, cinquanta anni prima che il “pentito” per antonomasia Tommaso Buscetta in presenza del giudice Falcone rivelasse i segreti più oscuri, la struttura e l’organizzazione della mafia, la Questura di Palermo conosceva perfettamente tutto ciò e addirittura era edotta del rito di iniziazione per entrare a far parte di Cosa Nostra. Il dubbio sovviene spontaneamente, come poteva la Questura essere a conoscenza di determinate dinamiche interne all’organizzazione? L’uomo comune non poteva chiaramente conoscerle, per esserne a conoscenza dovevi far necessariamente parte di Cosa Nostra; prendiamo ad esempio il rito di iniziazione (la cd. “punciuta”), un soggetto per entrare a far parte della mafia deve essere presentato da un “uomo d’onore”, che garantisce per lui. La conclusione è logica, essendo Cosa Nostra un mondo chiuso ed ermetico nei confronti dell’esterno, la Questura per essere in possesso di queste informazioni aveva sicuramente ricevuto delle “lezioni sull’antistato mafioso” da componenti interni a quel mondo. Questo è ciò che scrive la questura nel prologo del volume 2196:

già indubbiamente accertato che la mafia, che non è un semplice stato d’animo o un abito mentale, ma diffonde l’uno e l’altro da una base di piena organizzazione, suddivisa in cosiddette “famiglie” e in “diecine”con “capi o rappresentanti” regolarmente eletti e con i “fratelli” sottoposti ad un giuramento di indiscussa fedeltà e di segretezza, prestato sul proprio sangue fuoriuscito da un dito punto da uno spillo ed in forma solenne, riprendeva la sua via di agire criminosamente, e di tentare ancora una volta l’inquinamento di ogni branca dell’attività pubblica ed economica della regione.

O ancora:

risultò ancora che la mafia era organizzata in Sicilia in forma settaria sulla falsa riga della massoneria e che i vari gruppi dei singoli comuni prendevano il nome di “famiglie”, rappresentati per ogni provincia da una capo che teneva i rapporti financo con filiali esistenti all’estero, e che erano, ed evidentemente sono, in relazione col fuoruscitismo.

Fattore importante che si evince dalle parole appena lette è la divisione in famiglie oltre al carattere internazionale del fenomeno mafioso; le “filiali esistenti all’estero” altro non erano che le famiglie americane. Buscetta cinquanta anni dopo farà lo stesso (così come si legge negli atti del maxi-processo degli anni ‘80) elencherà tutti i mandamenti di Palermo e provincia indicandone le famiglie reggenti.

Proseguendo l’analisi del meraviglioso documento, leggendo alcune vicende dei fratelli Marasà, affiliati di Cosa Nostra, hanno attirato la nostra attenzione due parole che sono sembrate quasi anacronistiche mettendo in risalto un argomento più che mai attuale, vediamole:

Fra i traditori o comunque indegni, furono principalmente considerati i fratelli MARASÀ, noti capoccia della mafia di ogni tempo, con la loro rocca forte di Boccadifalco, e, dentro lo stesso carcere fu organizzato contro di essi un abigeato di diversi animali bovini, e fatto eseguire per sfregio da sicari rimessi in libertà, tanto per dare il noto “avvertimento” dell’aperta ostilità. […] Le vaste conoscenze (dei fratelli MARASÀ) in ogni ceto sociale, i rapporti più che saldi che li legavano ai più pericolosi e bassi strati della delinquenza, le vantate protezioni politiche e titolate del tempo passato e la imponente posizione economico-finanziaria di oltre un trentennio di mafia, tutto insomma, fu agevole ai fratelli Marasà per alzare la voce e costituirsi dei gruppi di delinquenti più temuti alla loro diretta dipendenza in asservimento completo per contrastare e sopraffare gli avversari che avevano determinato contro di essi rappresaglie e più fredde vendette.

Protezioni politiche. Sappiamo bene come l’argomento Stato-Mafia sia un topos che ci accompagna da quasi un trentennio, ed è la ragione per cui hanno perso la vita i due giudici Falcone e Borsellino. Nulla togliendo all’immenso lavoro degli anzidetti, ma trovare in un documento della Questura del 1938 un collegamento tra mafia e politica, fa scattare una domanda in maniera quasi automatica: perché l’argomento divenne di “moda” solo con le loro indagini? La risposta potrebbe essere semplice, nessuno ebbe mai il coraggio di farsi avanti. A questo punto la responsabilità ricadrebbe su uno Stato che pur sapendo, anzi conoscendo intimamente, da decenni cosa fosse la mafia non ebbe mai la volontà di sconfiggerla.

Concludendo il parallelismo con Falcone e Borsellino si deve rendere merito al loro stacanovistico operato, sebbene, da quanto abbiamo appresso da questo documento, molti dettagli, già prima del loro lavoro, su cosa fosse questa “fantomatica” mafia, lo Stato, li conoscesse già; la grandissima e rivoluzionaria intuizione del Falcone, come strumento nella lotta alla criminalità organizzata, fu la massima: “segui il denaro e troverai il colpevole”.

Lo stato fascista, si legge nel verbale, tentò di combattere l’organizzazione e

Dopo opportuno esame della situazione e ponderato studio sui mezzi da impiegare, nel settembre 1933, istituivasi il Regio Ispettorato Generale di P.S. (polizia di Stato) per la Sicilia, organo speciale ed autonomo, mobilissimo e tecnico, dotato di attrezzatura moderna e composto con forza mista dell’Arma e della P.S., che cominciò la sua azione con sistema originale e con direttive del tutto nuove. […] agivano in tutta l’isola con piena libertà di movimento e senza alcuna limitazione territoriale, appunto per avere un preciso quadro d’insieme della situazione e dell’attività dei vari gruppi di mafia già esistiti e riorganizzati, per colpirli in pieno […].

L’istituzione di questa “task-force” ante litteram portò qualche risultato importante,

con la denunzia di circa 300 associati che sono in atto sottoposti a giudizio, e tolti dalla circolazione numerosi dei più temuti latitanti, specializzati in abigeati e pronti sempre a venire a conflitto a fuoco con la forza pubblica, si ebbe nell’isola ancora una volta una generale tranquillità.

La mafia possedeva e possiede una caratteristica peculiare, quando subisce un duro colpo ha una capacità senza eguali di incassarlo silente e di riorganizzare prontamente i suoi ranghi, è un processo ciclico. La ciclicità di questo processo verrà meno nella misura in cui si affermerà una rivoluzione culturale pandemica.

Concludendo, il fascismo, se ci riflettiamo e vogliamo un pò estremizzare, aveva la forza e poteva eliminare Cosa Nostra con gli stessi mezzi con cui Cosa Nostra stessa eliminava i suoi avversari.

Perché non lo ha fatto?

 

Autore: Davide Alessandra

Fonte foto: dalla rete

 

Davide Alessandra, laureando in giurisprudenza e studente di archivistica, paleografia e diplomatica presso la scuola dell’Archivio di Stato di Palermo.

 

 

APPENDICE DOCUMENTALE

ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, QUESTURA DI PALERMO VOL. 2196.

Regio Ispettorato Generale di P.S. per la Sicilia

L’anno 1938, addì 16 del mese di luglio in Palermo […]: Nonostante tutte le ondate di provvedimenti di polizia e giudiziari più o meno energiche ed a proporzioni più o meno vasta, che si sono susseguite, l’organizzazione criminosa, conosciuta da secoli in Sicilia ed altrove sotto il nome generico di “mafia”, ha sempre resistito a tutti i colpi e non ha mai cessato realmente di esistere. […] Questa sua indubbia esistenza nell’isola, e diciamo anche all’estero, non è stata mai astratta o immaginaria, ma reale, evidente, palpitante e da tutti sentita, vista e temuta. […] Ed infatti troviamo un primo
obiettivo riscontro della sua piena efficienza delittuosa nel carcere di Palermo, dove nel 1930-1931 si trovavano ancora detenuti gli associati della mafia della piana dei Colli. Quella mafia, che con i suoi conflitti feroci e cruentissimi aveva inondato di sangue e riempito di cadaveri anche le principali vie di Palermo, per il predominio conteso fra i famosi gruppi GRILLO-GENTILE, e che costituita da elementi vecchi e nuovi, avrebbe voluto capitanare il
famoso Arturo Mingoia, sotto il titolo di “Nuova Sicilia”. Costituitesi le basi nello stesso carcere della fiorente organizzazione che non aveva di
mira, come potrebbe sembrare, di sostituire la vecchia, e dimessi dal carcere man mano gli associati delle vaste retate, non poteva mancare, e non mancò difatti, un nuovo conflitto tra il Mingoia e Scrima Salvatore, il cui epilogo fu il noto processo già discusso alla Corte di Assise di Palermo. Sopraffatto e invigliacchito per l’attentato alla sua vita, l’Arturo Mingoia, nonostante la sua pericolosità e l’incondizionato appoggio che gli proveniva dal famoso Grillo, suo suocero, svelò allora in parte i fatti, che ritenne conveniente far noti, alla polizia e fuggì dalla Sicilia, stabilendosi a Napoli. [….] dopo un periodo relativamente breve di tranquillità apparente e niente affatto rappresentativa delle reali condizioni di sicurezza pubblica, si constatarono con ritmo progressivamente accentuato diversi episodi tipici della mafia, che non lasciavano alcun dubbio sulla piena riorganizzazione di essa e sulla prontezza ad insorgere come e più di prima, con nuovi e feroci delitti per smisurate rappresaglie e vendette. Si constatò, poi, che dall’episodio singolo e dal delitto isolato comune si passò ben presto alla forma delinquenziale specifica dell’isola, con latitanti raminghi e bande armate che agivano alla dipendenza o per conto di determinati gruppi di mafia, i quali col delitto miravano a riconquistare il prestigio di un tempo, già scosso dalle operazioni di polizia e dalla lotta dichiarata dal governo contro le parassitarie organizzazioni. […] Dopo opportuno esame della situazione e ponderato studio sui mezzi da impiegare, nel settembre 1933, istituivasi il Regio Ispettorato Generale di P.S. (polizia di Stato) per la Sicilia, organo speciale ed autonomo, mobilissimo e tecnico, dotato di attrezzatura moderna e composto con forza mista dell’Arma e della P.S., che cominciò la sua azione con sistema originale e con direttive del tutto nuove. […] agivano in tutta l’isola con piena libertà di movimento e senza alcuna limitazione territoriale, appunto per avere un preciso quadro d’insieme della situazione e dell’attività dei vari gruppi di mafia già esistiti e riorganizzati, per colpirli in pieno […]. Le condizioni più allarmanti della Sicilia […] erano quelle della provincia di Trapani e principalmente nei paesi di Vita e Salemi, dove la mafia, mai attaccata in profondità nel passato, aveva più che altrove perpetrati ferocissimi delitti ed imperava con tutti i suoi quadri al completo. Con azione rapida e precisa, il Regio Ispettorato accertò in quella zona, infetta e ritenuta un vero anacronismo in questi tempi di risanamento sociale, l’esistenza di una vasta associazione di malfattori e procedette alla denunzia di 130 di essi, responsabili di vari efferati delitti, il cui processo si trova in atto in discussione innanzi la Corte di Assise di Messina. […] il Regio Ispettorato riuscì ad accertare le fila attivissime di altra organizzazione criminosa a carattere interprovinciale detta “abigeataria”, perché principalmente potenziata dal cespite delittuoso delle rapine e dei furti aggravati di animali, che da diversi anni paralizzavano l’economia agricola della regione, arricchendo i sodalizi criminosi e dando ad essi motivo di sviluppo e di crescente influenza. […] Condotta a fondo la importante operazione, principalmente nelle provincie di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta, con la denunzia di circa 300 associati che sono in atto sottoposti a giudizio, e tolti dalla circolazione numerosi dei più temuti latitanti, specializzati in abigeati e pronti sempre a venire a conflitto a fuoco con la forza pubblica, si ebbe nell’isola ancora una volta una generale tranquillità. […] Cessato l’abigeato, tipico delitto a fonte di lucrose speculazioni da parte della mafia, nella speculazione stessa e nel lucro sempre più affratellata, a confermare quanto già aveva accertato il Regio Ispettorato, valsero le indagini relative alla brigantesca aggressione dell’autocorriera S. Biagio Platani-Casteltermini, che, col sequestro dell’intera ingentissima refurtiva, portarono fermamente ed incondizionatamente a stabilire la ricostituzione dei gruppi in piena regola in diversi comuni della provincia di Agrigento: gruppi che avevano da tempo ripresa l’attività criminosa ed agivano oltre i confini comunali, quasi del tutto indisturbati e quel ch’è peggio, insospettati. […] risultò ancora che la mafia era organizzata in Sicilia in forma settaria sulla falsa riga della massoneria e che i vari gruppi dei singoli comuni prendevano il nome di “famiglie”, rappresentati per ogni provincia da una capo che teneva i rapporti financo con filiali esistenti all’estero, e che erano, ed evidentemente sono, in relazione col fuoruscitismo.
[…] Più che altrove, il sintomatico ritorno ai furibondi conflitti di un tempo, si notò ancora in provincia di Trapani, con speciale intensità nel comune di Gibellina, dove, dal bandito Ponzio Salvatore, veniva ucciso il noto capo mafia Saro Pirrello. […] L’uccisione del Saro Pirrello a Gibellina, che era stato desposta del famoso ex feudo “Pietra” di proprietà De Lorenzo, con gli altri susseguiti episodi connessi, e quella di Peppino Crivello nella piana dei Colli, che, vecchio santone, era ritornato ad esercitare il proprio dominio nel fondo “Amari” di Cardillo: con le altre manifestazioni di mafia in diretta relazione che l’avevano preceduta e seguita, fornivano all’Ispettorato Generale ancora altra più tangibile prova del pericoloso risveglio nella parte occidentale della Sicilia della mafia, che, per la sicurezza e la libertà dei cittadini, non ammetteva ritardo né incertezza, per una concreta, profonda, organica e salutare azione epuratrice. […] Nonostante le misure di prevenzione adottate, la furia dei reati gravi continuava: in città si perpetravano rapine a mano armata anche a domicilio per opera di malfattori che assumevano la qualifica di agenti di P.S.: in territorio di Monreale si segnalava la presenza di un gruppo di latitanti che agiva criminosamente in larga scala, e, riservatamente risultava oltre che l’acuirsi di quella lotta intestina già accennata, perfino la scomparsa di individui e la consumazione di diversi reati a scopo di rappresaglia, neppure denunziati. […] già indubbiamente accertato che la mafia, che non è un semplice stato d’animo o un abito mentale, ma diffonde l’uno e l’altro da una base di piena organizzazione, suddivisa in cosidette “famiglie” e in “diecine”con “capi o rappresentanti” regolarmente eletti e con i “fratelli” sottoposti ad un giuramento di indiscussa fedeltà e di segretezza, prestato sul proprio sangue fuoriuscito da un dito punto da uno spillo ed in forma solenne, riprendeva la sua via di agire criminosamente, e di tentare ancora una volta l’inquinamento di ogni branca dell’attività pubblica ed economica della regione. […] molti degli esponenti maggiori della mafia dell’agro palermitano, che erano stati parzialmente colpiti dalle azioni repressive, trovandosi nel 1930 nel carcere di Palermo, non erano stati moralmente e finanziariamente assistiti dagli altri molto notori capi che, per ragioni varie donde non esulavano intrighi e inframmettenze, erano riusciti a rimanere esclusi da qualsiasi provvedimento di polizia e di giustizia. I colpiti, e tra questi il Mingoia, genero del Grillo famoso, ritennero e forse non a
torto che gli sfuggiti, come i capi della provincia di Trapani, per salvarsi, avevano tradito i compagni asservendosi alla polizia o comunque fatto “li sbirri e l’infami”, e di conseguenza avevano deciso di riorganizzare le fila della mafia, escludendo da esse coloro che avevano coperto i posti di comando e che non erano ritenuti più fedeli alle regole del segreto sodalizio. Fra i traditori o comunque indegni, furono principalmente considerati i fratelli MARASÀ, noti capoccia della mafia di ogni tempo, con la loro rocca forte di Boccadifalco, e, dentro lo stesso carcere fu organizzato contro di essi un abigeato di diversi animali bovini, e fatto eseguire per sfregio da sicari rimessi in libertà, tanto per dare il noto “avvertimento” dell’aperta ostilità. […] Le vaste conoscenze (dei fratelli MARASÀ) in ogni ceto sociale, i rapporti più che saldi che li legavano ai più pericolosi e bassi strati della delinquenza, le
vantate protezioni politiche e titolate del tempo passato e la imponente posizione economico-finanziaria di oltre un trentennio di mafia, tutto insomma, fu agevole ai fratelli Marasà per alzare la voce e costituirsi dei gruppi di delinquenti più temuti alla loro diretta dipendenza in asservimento completo per contrastare e sopraffare gli avversari che avevano determinato contro di essi rappresaglie e più fredde vendette. […]

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