Roma 21 settembre 1870: il ricordo di Edmondo De Amicis

Così Edmondo De Amicis ricordò l’entrata dell’esercito italiano a Roma nel settembre del 1870

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Ieri mattina alle quattro fummo svegliati a Monterotondo, io e i miei compagni, dal lontano rimbombo del cannone. Partimmo subito. Appena fummo in vista della città, a cinque o sei miglia, argomentammo dai nuvoli del fumo che le operazioni militari erano state dirette su vari punti. Così era infatti. Il 4° corpo d’esercito operava contro la parte di cinta compresa tra porta San Lorenzo e porta Salara, la divisione Bixio contro porta San Pancrazio. Il generale Mazè de la Roche, con la 12.” divisione del 4.º corpo, doveva impadronirsi di Porta Pia.

Via via che ci avviciniamo (a piedi si intende) vediamo tutte le terrazze delle ville affollate di gente che guarda verso le mura. Presso la villa Casalini incontriamo i sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno aspettando l’ordine di avanzarsi contro Porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora assalito. L’artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per aprire le breccie. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia era stata aperta vicino a Porta Pia, e che i cannoni dei pontificii appostati là, erano stati smontati. Si parlava di qulcuno dei nostri artiglieri ferito. Ne interrogammo parecchi che tornavano dai siti avanzati, e tutti ci dissero che i pontificii davano saggio d’una maravigliosa imperizia nel tiro, che i varchi già erano aperti, che l’assalto della fanteria era imminente. Salimmo sulla terrazza d’una villa e vedemmo distintamente le mura sfracellate e la Porta Pia malconcia.

Tutti i poderi vicini alle mura brulicavano di soldati; si vedevano in mezzo agli alberi lunghe colonne di artiglieria; lampeggiavano fucili tra i verde dei giardini; scintillavano lancie al di sopra dei muri; ufficiali di Stato mag giore e staffette correvano di carriera in tutte le direzioni.

E’ impossibile ch’io vi dia notizie particolari di quello che fecero le altre divisioni. Vi dirò della divisione Mazè de la Roche, che è quella ch’io seguii. La strada che conduce a Porta Pia è fiancheggiata ai due lati dai muri dicinta dei poderi. Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta si vedeva benissimo a una grande lontananza; si vedevano le materasse legate al muro dai pontificii, e già per metà arse dai nostri fuochi; si vedevano le colonne della porta, le statue, i sacchi di terre ammonticchiati sulla barricata costrutta dinanzi; tutto si vedeva nettamente. Il fuoco dei cannoni pontificii, da quella parte, era già cessato: ma i soldati si preparavano a difendersi dalle mura. A poche centinaia di metri dalla barricata, due grossi pezzi della nostra artiglieria traevano contro la porta e il muro. Il contegno di quegli artiglieri era ammirabile. Non si può dire con che tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così breve distanza dal nemico. Gli ufficiali erano tutti presenti. Il generale Mazè, col suo Stato maggiore, stava dietro i due cannoni. Ad ogni colpo, si vedeva un pezzo del muro o della porta staccarsi e rovinare. Alcune granate, lanciate, parve, da un’altra porta, passarono non molto al disopra dello Stato maggiore. Gli zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno dei nostri reggimenti ne pativa molto danno.

Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all’assalto. Vidi passare il 40.º a passo di carica; vidi tutti i soldati, presso alla porta, gettarsi a terra in ginocchio, per aspettare il momento d’entrare. Udii un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido “Savoia!, poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridò : – Sono entrati! – Arrivarono allora a passi concitati i sei battaglioni dei bersaglieri della riserva; sopraggiunsero altri reggimenti: vennero oltre, in mezzo alle colonne, le lettighe pei feriti. Corsi con gli altri verso la Porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla barricata; non si sentiva più rumore di colpi; le colonne a mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali, seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante del 35.”. Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri con le mani fasciate. Sapemmo che il generale Angelino s’era slanciato innanzi dei primi con la sciabola nel pugno come un soldato. Da tutte le parti accorrevano emigrati gridando. Tutti si arrestavano un istante, a guardare il sangue sparso qua e là per la strada: sospiravano, e ripigliavan la corsa. La Porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine enorme della Madonna,  che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra, di materasse fumanti di berretti di zuavi, d’armi, di travi, di sassi.

Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. In quel momento, uscì da Porta Pia tutto il Corpo diplomatico in grande uniforme, e mosse verso il quartier generale. Entrammo in città. Le prime strade erano già piene di soldati. E’ impossibile esprimere la commozione che provammo in quel momento; vedemmo tutto in confuso, come dietro una nebbia. Alcune case arse la mattina fumavano, parecchi zuavi prigionieri passavano in mezzo alle file dei nostri, il popolo romano ci correva incontro. Salutammo, passando, il colonnello dei bersaglieri Pinelli; il popolo gli si serrò intorno gridando. A misura che procediamo nuove carrozze, con entro ministri ed altri personaggi di Stato, sopraggiungono. Il popolo ingrossa. Giun giamo in piazza di Termini: è piena di zuavi e di soldati indigeni che aspettano l’ordine di ritirarsi. Giungiamo in piazza Quirinale. Arrivano di corsa i nostri reggimenti, i bersaglieri, la cavalleria. Le case si coprono di bandiere. Il popolo si getta fra i soldati gridando e plaudendo. Passano drappelli di cittadini con le armi tolte agli zuavi. Giungono i prigionieri pontificii. I sei battaglioni dei bersaglieri della riserva, preceduti dalla folla, si dirigono rapidamente, al suono della fanfara, verso piazza Colonna. Da tutte le finestre sporgono bandiere, s’agitano fazzoletti bianchi, s’odono grida ed applausi.

Il popolo accompagna col canto la musica delle fanfare. Sui terrazzini s’affacciano famiglie intere che battono le mani. S’arriva a piazza di Trevi. I soldati prorompono in esclamazioni di maraviglia alla vista della grande roccia coronata di statue, donde precipita un fiume ; gli ufficiali debbono sospingerli innanzi. S’entra in piazza Colonna: un altro grido di maraviglia s’alza dalle file. La moltitudine si versa nella piazza da tutte le parti, centinaia di bandiere sventolano, l’entusiasmo divampa: non v’è parola umana che valga ad esprimerlo. I soldati sono commossi fino a piangere. Non vedo altro, non reggo alla piena di tanta gioia, mi spingo fuori della folla, incontro operai, donne del popolo, vecchi, ragazzi; tutti hanno la coccarda tricolore, tutti accorrono gridando: – I nostri soldati ! – I nostri fratelli! E commovente; è l’affetto compresso da tanti anni che prorompe tutto in un punto ora; è il grido della libertà di Roma che si sprigiona da centomila petti; è il primo giorno d’una nuova vita; è sublime. E altre grida da lontano: – I nostri fratelli!

 

 

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