Duemiaottantatre campi padovani e mezzo, quarantaquattro tra case e casoni, una osteria e una stalla. Questo era quanto Elena Lando-Correr l’11 gennaio 1739, more veneto, dichiarava di possedere in quel di Lozzo, nella Bassa Padovana, ai Dieci Savi sopra le Decime. La nobildonna dichiarava anche di farsi carico del mantenimento di dodici famiglie padovane, a cui venivano garantiti anche dottore, chirurgo e farmacista. Versava pure un contributo economico a favore di un capellano, del parroco di Lozzo, di un chierichetto, di un un fioraio, della decorazione floreale della chiesa, dei monaci del Convento di San Mattia a Padova e del parroco di Santa Caterina.

 

Detratte queste spese la possessione di Lozzo garantiva a Elena Lando-Correr contanti per 554:17 ducati correnti, a cui si aggiungevano:
4130 staia di frumento
4462 staia di mais
324 mastelli di vino
240 some d’uva
4 staia di fagiolini
276 staia di granada
136 staia d’orzo
225 libbre di lino
56 staia d’avena
3200 fascine di legna
2090 libbre di carne di maiale
6 staia di fagioli
8 staia di sorgo rosso
8 staia di legumi diversi da fagioli e fagiolini, forse piselli.

 

Presumibilmente fagiolini, fagioli e piselli erano destinati, data la scarsa quantità, alla tavola domestica della famiglia Lando-Correr, mentre il sorgo rosso, altrimenti conosciuto come saggina, forse trovava impiego nella produzione di scope destinate a spazzare la corte padronale.
Particolarmente complicato è stato identificare la “granada”, il fatto che venisse misurata a staja mi suggeriva di identificarla come un cereale, ma questo significato non esiste nell’italiano moderno ed una ricerca sul Boerio e sul Patriarchi aveva dato esito negativo.
Una fortunata ricerca su Google mi suggeriva di consultare il lavoro di Mauro Vigato intitolato Castelfranco: società, ambiente, economia dalle fonti fiscali di una podestaria trevigiana tra XV e XVI secolo, e lì leggevo che la granada è una mistura di frumento e segale.

 

Si tratta di un dato estremamente interessante perché ci informa che, per quanto marginale, la coltivazione della segale aveva un suo “peso” nel Lozzese ma che, comunque, non doveva essere particolarmente gradita dato che veniva “tagliata” col grano.

 

Anche identificare a quanto corrispondeva una “soma” d’uva non è stato facile. Nè il Boerio, ne il Martini, ne il Piva erano riusciti a spiegarmi a quanto corrispondesse una “soma”. Solo attraverso la lettura di Terra disegnata di Renato Grandis et alii sono riuscito ad apprendere che nella zona di Este una “soma” corrispondeva a 262,5 libbre grosse padovane, e che da questa quantità si ricava vino per 9/10 di mastello padovano.

 

Il quantitativo di vino che Elena ricavava dalla sua possessione saliva quindi a 540 mastelli totali.

 

In precedenza ho indicato a quanto ammontava la parte in denaro del fitto che i fittavoli erano tenuti a pagare, ma Elena poteva contare anche su un’altra fonte di reddito, il ricavato derivante dalla vendita delle derrate ricevute come canone.

 

Per cercare di calcolare un controvalore ho interrogato nuovamente Google, chiedendo uno storico dei prezzi di grano e mais e sono stato invitato a consultare il lavoro di Carmelo Ferlito, Per un’analisi del costo della vita nella Verona del Settecento.
Nel testo l’autore riporta un dato estremamente interessante, lo storico dei prezzi medi mensili dal 1700 al 1794 di frumento, mais e miglio, espresso in lire venete decimalizzate per soma bresciana, sul mercato di Desenzano.

 

Li potevo leggere che nel gennaio del ’40 per una soma bresciana di frumento era necessario spendere 29,56 lire venete mentre per una di mais 25,39. Questi valori corrispondono ad un prezzo ettolitrico rispettivamente di 20,26 e 17,40.

 

Applicando tali importi alle quantità dichiarate dalla Correr ricavo un controvalore totale di 7545 ducati correnti.

 

Il Ferlito nel suo lavoro riporta, oltre ai prezzi di frumento e mais, anche quelli della carne porcina.
Si tratta di dato temporalmente un po’ distanti dal 1740, ma comunque interessanti perché preciso.
Secondo il Ferlito nel 1786 la carne porcina si vendeva a 68,5 lire venete, decimalizzate, per 100 libbre veronesi.

 

Ricordando che Elena dichiarava di ricavare 2090 libbre padovane di carne porcina queste potevano corrispondere a 224:19 ducati correnti.
Ricardo Caimmi, nel suo Spedizioni navali della Repubblica di Venezia alla fine del Settecento, riporta che nell’anno 1746 la Veneta Serenissima Marina acquistava il vino destinato alla flotta pagandolo 18:7 ducati effettivi d’argento per anfora, ed utilizzando questo valore ricavo che il controvalore di quei 540 mastelli è pari a 1425:11 ducati correnti.
L’importo complessivo potenzialmente ricavabile dalla vendita di frumento, mais, carne porcina e vino è quindi di 9749:23 ducati correnti.
È possibile ricavare un ordine di grandezza in valuta moderna per questa cifra? Forse sì.

 

Andrea Zannini, nel suo L’economia veneta nel Seicento, ci dice che nel quinquennio 1737/41 lo stipendio giornaliero di un manovale nella città di Venezia era di circa 38 Soldi. Di conseguenza, con quei 9749:23 ducati potevano essere pagate 31816 giornate lavorative.
Prima dell’invenzione della luce elettrica erano lavorative tutte le ore di luce, ma la durata della giornata lavorativa variava a seconda della maggiore o minore durata del giorno. Guido Ercole, nel suo Venezia ‘800: bufera in Arsenale, riporta una tabella con gli orari di entrata, uscita e pausa per gli arsenalotti.
Lo studio di questo documento da una durata media nel corso dell’anno pari a 9,5 ore.
Utilizzando questo valore ricavo che quelle 31816 giornate corrispondono a 302252 ore di lavoro.
Nel 2020, conteggiando un voucher a 9€, quelle 302252 ore generano un controvalore di 2720268€
Decisamente un bel mucchio di soldi!!

 

Nota Metrologica
La valuta della Repubblica di Venezia era la lira veneta, nome completo Lira Veneta di Piccoli, divisa in 20 soldi da 12 piccoli o bagatini, la contabilità invece si teneva in ducati correnti, moneta di conto divisa in 24 grossi.
Il tasso di cambio tra lira veneta, reale e ducato corrente era fissato in 31:5, cioè 31 lire corrispondevano a 5 ducati correnti.
Il ducato d’argento effettivo era una moneta della repubblica il cui valore a partire dal 1733 è stato stabilizzato a 8 lire venete.
Nonostante questo nella redazione dei contratti il ducato d’argento effettivo veniva computato come suddiviso il 24 grossi immaginari.
Gli autori moderni per praticità esprimono gli importi non in notazione L:S:D ma decimalizzati. Nella repubblica gli aridi si vendevano non a peso bensì a volume. L’unità di misura variava da zona a zona, nel padovano era il moggio, corrispondente a 347,8 litri moderni, diviso in 12 staja, nel bresciano la soma da 145,92 litri. I liquidi nel padovano si vedevano a mastelli da 8 secchi, 1 mastello = 71,27 litri, nella città di Venezia in anfore da 8 mastelli, 1 anfora = 600,94 litri. Carne e formaggio si vendevano a peso, nel padovano l’unità di misura era la libbra grossa da 0,486 kg moderni, nel veronese sempre la libbra grossa, ma da 0,499 kg.

 

 

Autore articolo: Enrico Pizzo

Bibliografia: Andrea Zannini, “L’economia veneta nel Seicento”, 1996; Angelo Martini, “Manuale di Metrologia”, 1883;Carmelo Ferlito, “Per un’analisi del costo della vita nella Verona del Settecento”, 2006;Gasparo Patriarchi, “Vocabolario Veneziano e Padovano co’ termini e modi corrispondenti Toscani”, 1821;Giuseppe Boerio, “Dizionario del Dialetto Veneziano”, 1867;Guido Ercole, “Venezia ‘800: bufera in Arsenale”, 2016;Mauro Vigato, “Castelfranco: società, ambiente, economia dalle fonti fiscali di una podestaria trevigiana tra XV e XVI secolo”, 2001; Renato Grandis et alii, “Terra disegnata”, 2017; Renato Ponzin, “Un colle due campanili”, 2005; Ricardo Caimmi, “Spedizioni navali della Repubblica di Venezia alla fine del Settecento”, 2018; Vittorio Piva, “Manuale di Metrologia delle tre Venezie e della Lombardia “, 1935

 

 

Enrico Pizzo, classe ’74, residente sui Colli Euganei. Appassionato di storia veneta e storia dei sistemi monetari preunitari.