Sistemi monetari preunitari: l’iniquità presunta del tasso di cambio tra Ducato Napoletano e Lira Piemontese
Non è raro incappare in articoli web che denunciano un tasso di cambio fosse iniquo nei confronti del Sud post-unitario tra Ducato Napoletano e Lira Piemontese. È realmente così?
Il ducato napoletano aveva un fino di grammi 19,109. La Lira Piemontese era la copia autentica della lira introdotta nel Regno di Sardegna con le Regie Patenti del 6 agosto 1816, rilasciate da Vittorio Emanuele I. Aveva peso in grammi 5,00 di argento, con un rapporto di 1: 15,5 con l’oro al titolo di 900/1000 e con un fino, quindi, di grammi 4,50. Il rapporto tra le due monete (fino di grammi 19,109 la napoletana e fino di 4,500 grammi la piemontese) di dava un cambio di 4,246 volte, arrotondato a 4,25.
L’idea che la Lira Piemontese non sia stata una moneta scelta liberamente da tutti gli stati della penisola, ma imposta col Regio Decreto del 17 luglio 1861 n. 452, si può anche accettare. Tuttavia bisogna precisare che, in realtà, i diversi sistemi monetari vigenti nel 1859 restarono in pieno vigore fino al decreto di unificazione del 1862. Così, anche prescindendo dal Veneto e dallo Stato Pontificio, seguitarono ad avere circolazione legale quattro tipi diversi di monete: la lira nuova del Piemonte e la lira nuova di Parma, pari alla lira italiana; la lira toscana pari a lire it. 0,84; il fiorino austriaco in Lombardia, pari a lire it. 2,47; il ducato nelle province meridionali pari a lire it. 4,25.
Era una situazione transitoria, da stato di guerra, che trovò la sua soluzione definitiva solo nella Legge fondamentale del 24 agosto 1862 n.788, in base alla quale il sistema monetario italiano era posto su base bimetallica al rapporto AU/AR di 1:15,5 e unità monetaria legale del sistema era la lira d’argento da 4,5 grammi di fino corrispondente, per il rapporto legale AU/AR adottato, a grammi 0,29032258 di oro fino. Accadde che, nel 1862, il rapporto di mercato AU/AR era sceso a 1:15,36 (contro quello stabilito per legge a 1:15,5). La moneta argentea veniva quindi sottovalutata e, per la legge di Gresham, sarebbe presto sparita dalla circolazione. L’inconveniente era grave, e per evitarlo, invece di abbassare il rapporto legale, adeguandolo a quello di mercato, o invece di abbassare la parità argentea legale della lira, si mantenne il primo a 1:15,5 e la seconda a 4,5 di fino, ma si coniò la lira con un intrinseco lievemente inferiore alla parità legale. Il pezzo da una lira cioè fu battuto al peso di gr. 5 ed al titolo di 835 millesimi, con un fino quindi di grammi 4,175.
Da queste misure, alcuni articoli presenti in rete fanno scaturire una presunta iniquità del tasso tra Ducato Duosiciliano e Lira Piemontese a sfavore del Sud. Si asserisce che il cambio lira/ducato non fosse più a 4,25, bensì a 4,58, rapportando il fino del ducato napoletano (gr. 19,109) ed il fino reale della lira (4,175), col risultato di 4,577.
All’indomani dell’approvazione della Legge 788 le monete da 0,2 , 0,5 , 1 e 2 Lire furono coniate in argento al titolo di 835/1000 ma avevano potere liberatorio limitato verso i privati fino alla somma di Lire 50 (secondo l’art. 7), mentre il pezzo da 5 Lire in argento 900/1000, (art. 6), aveva potere liberatorio illimitato al pari dell’oro. Ne consegue che solo la moneta da 5 Lire (Scudo) costituisse il Campione Legale dell’argento ed il riferimento per la corrispondenza in grammi della Lira.
A questo calcolo sbagliato, fondato su un campione di riferimento sbagliato, gli assertori dello sfavore del cambio per il Sud aggiungono che con una moneta di valore inferiore sarebbe stato acquistato più metallo prezioso meridionale o che il metallo prezioso meridionale sia stato. Inoltre allargano il discorso alle altre monete della penisola, sostenendo che anche la Lira Toscana a lit. 0,84 sia stata valutata ad un cambio inferiore alla lira italiana, con l’eccezione del Fiorino Austriaco cambiata a lit. 2,47, di molto inferiore a quello del ducato meridionale.
Precisiamo, invece, che nel XIX secolo i rapporti di cambio tra le varie valute erano basati sul rapporto ponderale del loro fino. La Lira Toscana era coniata in argento a titolo 917/1000 e pesava 4,08 g. Con questi valori come poteva essere ragguagliata ad una tariffa diversa da 0,84 Lire Piemontesi? Identiche considerazioni valgono per il Fiorino Austriaco.
Altra puntualizzazione da fare concerne l’idea, parecchio diffusa, che il ducato napoletano valesse oltre quattro volte la moneta piemontese perché riflesso di una superiore ricchezza commerciale, agricola e industriale delle Due Sicilie. Questa è un’opinione desolante, priva di fondamento, oltre che autocontraddittoria. Ribadiamo che nel XIX secolo i rapporti di cambio tra valute diverse erano basati sul rapporto ponderale del loro fino. L’accettazione delle monete invece da quanto l’impronta di queste era conosciuta. Attribuire un maggior valore ad una moneta sulla base di un suo maggiore peso è assolutamente ingenuo. Gli unici tipi di confronto possibili sarebbero al più quelli basati sull’analisi del potere d’acquisto che la moneta poteva avere e sul rapporto con le retribuzioni medie.
Autore articolo: Enrico Pizzo, classe ’74, residente sui Colli Euganei. Appassionato di storia veneta e storia dei sistemi monetari preunitari.
Bibliografia: Angelo Martini, “Manuale di Metrologia”, 1883; Giuseppe Sacchetti, “Della coniazione monetaria”, 1873