Tiziano a Venezia

Il mondo dell’Adriatico, chiuso con la fortezza di Corfù, era il mondo della Repubblica di San Marco ed è qui che il giovane Tiziano mosse i suoi primi passi verso la fama.

Negli ultimi anni del Quattrocento, il pittore giunse in una Venezia che stava vivendo il suo massimo splendore. Era tra le città più popolose d’Europa, riusciva a dominare incontrastata i commerci marittimi nonostante la presenza sempre più minacciosa dei turchi e l’apertura della Via delle Indie, non trascurava neppure una proiezione nell’entroterra estendendo il suo potere sino a Brescia e Bergamo. Venezia era “città dell’opulenza”, abbondante di merci provenienti da Levante e Ponente, ma anche città della cultura: l’attività di intelligenze come Aldo Manunzio ne facevano una capitale dell’editoria, la Cancelleria di San Marco e la Scuola di logica e filosofia di Rialto erano centri mondiali degli studi storici, scientifici, letterari.

Artisticamente Venezia aveva conosciuto lo stile tardogotico, incarnato dalle fabbriche della Ca’ d’Oro e della Porta della Carta in Palazzo Ducale, il rinascimento di Pietro Lombardo e Mauro Codussi, le suggestioni fiamminghe e mitteleuropee. Brevemente vi sostarono pure Leonardo da Vinci e il pittore Albrecht Durer. Tiziano vi trovò attivi Vittore Carpaccio, Giovan Battista Cima da Conegliano, Lorenzo Lotto, Sebastiano Luciani, i fratelli Gentile e Giovanni Bellini, Giorgione da Castelfranco.

Nel confronto con questi grandi maestri, ricevette stimoli sorprendenti. L’iniziale apprendistato nelle botteghe dei Bellini e di Giorgione, riportato da diversi scrittori, non trova fonti certe, anzi a quanto pare Giorgione non ebbe mai una bottega o una sua scuola. Sono innegabili tuttavia i legami tra le due pitture, anzi, quando il pittore di Castelfranco spirò, nel 1510, Tiziano fu chiamato a modificare la sua Venere dormiente. La città lo riconobbe di fatti come erede di Giorgione anche se forse non fu mai suo allievo.

La prima opera ufficiale che Venezia gli affidò furono gli affreschi della facciata di terra del Fondaco dei Tedeschi. A Tiziano venne assegnato il compito di suscitare il rispetto per la Serenissima nei mercanti tedeschi che risiedevano nel Fondaco. Messaggi politici non mancarono neppure nella Pala di San Marco, dipinta da Tiziano per la Chiesa di Santo Spirito in Isola, dove compare un San Marco, incarnazione di Venezia, seduto su un trono, posizione generalmente riservata alla Madonna.

Qualche anno dopo, Tiziano rifiutò di trasferirsi a Roma, alla corte di Papa Leone X. All’invito, ricevuto da Pietro Bembo, l’artista fece seguire una petizione indirizzata al Consiglio dei Dieci nella quale si offrì come pittore ufficiale della Serenissima. Nella lettera Tiziano dichiarò di essere pronto a dipingere la Battaglia di Spoleto nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, al posto degli affreschi trecenteschi di Guariento ormai deteriorati, chiedendo di essere remunerato in denaro e di godere delle stesse agevolazioni concesse a Giovanni Bellini.

Era il 1513, ma l’incarico gli fu attribuito solo nel 1523, grazie al favore accordatogli dal Doge Andrea Gritti. Il Gritti, protagonista nel 1509 della riconquista di Padova, divenuto doge, avviò una politica di promozione culturale volta a rilanciare l’immagine della Serenissima come nuova Roma, dopo la caduta di Costantinopoli. Venezia intendeva presentarsi al mondo intero come nuova capitale di un impero del Mediterraneo e Tiziano divenne interprete di questo desiderio. Simboleggiò così la potenza della Repubblica nel San Cristoforo dell’appartamento dogale e negli altri dipinti del Palazzo, tutti andati distrutti dalle fiamme nel 1577.

Con la nomina a pittore ufficiale della Serenissima la carriera di Tiziano era ormai assicurata, poteva infatti godere di cento ducati annui ed era esente dalle tasse. Tiziano ricoprì tale carica per ben un sessantennio ed al Doge cui doveva la sua fortuna tributò un ritratto ritenuto tra i migliori da lui eseguiti. L’espressione severa di Gritti e la sua figura imponente trasmettono ancora oggi un timore reverenziale accentuato, forse non a caso, da un gesto della mano che ritroviamo nel Mosè di Michelangelo, sulla tomba di Papa Giulio II, un grande nemico di Venezia.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: C. Cagli (a cura di), Tiziano

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