Vita di Vincenzo Bellini

Da quindici anni Rossini spopolava in Italia ed in Europa ed un’enorme schiera di compositori non offriva che sue scolorite imitazioni. Nei teatri della Penisola si riproducevano continuamente rifacimenti spenti, scene e canti di poco valore, senza carattere. I modi rossiniani erano stereotipati ed abusati, poi arrivò Vincenzo Bellini.

Nato a Catania, Bellini era nipote di Vincenzo Tobia Nicola Bellini, rinomato compositore di musiche sacre, e figlio di Rosario Bellini, un compositore siciliano di minor fama che, con enormi sacrifici, volle mandarlo a Napoli per studiare al Real Collegio di Musica di San Sebastiano. Imparò lì il canto e vari strumenti, senza però fare grandi progressi. Studiò inizialmente con Giacomo Tritto, allievo del Durante, che insegnò sino al giorno della sua morte, il 17 settembre del 1824, all’età di novant’anni. Dopo Tritto, il giovane Bellini frequentò le lezioni di Nicola Antonio Zingarelli senza ancora mai distinguersi dagli altri allievi del conservatorio. Per maturare provò ad imitare Rossini che aveva messo in spartiti i quartetti di Haydn e Mozart, per esercitarsi ad acquisire più abilità con le composizioni. Migliorò così il suo stile e divenne maestro del conservatorio. Compose in questi anni quindici sinfonie, tre messe ed una dozzina di salmi, composizioni per flauti, clarinetti e pianoforte, e, come era tradizione, le sue musiche vennero eseguite in diverse chiese della città. Si mise in luce con l’operetta “Adelson e Salvina”, rappresentata al Real Collegio, e poi con “Ismene”, eseguita al Teatro San Carlo catturando il consenso del sovrano. L’Ismene piacque all’impresario Domenico Barbaja, uno dei più noti di quel decennio, il quale, percependo che il pubblico era ormai annoiato dalle continue riproposizioni di Rossini, gli commissionò un’opera. Nel 1826, nacque così “Bianca e Germando” che ottenne un incredibile successo in virtù della sua lontananza dallo stile del Rossini. La riuscita di questo lavoro procacciò al giovane artista una seconda opera per il Teatro alla Scala di Milano e in Lombardia il Bellini trovò Felice Romani, il poeta istruito ed elegante capace di guidarlo e far emergere il suo talento. Furono composte “Pirata”, eseguita nel 1827 col più noto tenore d’Italia, Giovan Battista Rubini, e poi “La Straniera”, trionfo della francese Henriette Méric Lalande.

Quelle di Bellini erano composizioni segnate da melodie facili, pensieri primitivi ed espressioni semplici. Gradazioni naturali, né mediocri, né pompose, forse ereditate dalle villanelle popolari, da i motivetti di Sicilia, dagli accenti musicali del golfo di Napoli. I suoi lavori erano un singolare connubio tra classicità e romanticismo. Nello stile serio riusciva ad inserire le ariette dello stile buffo. Adrian de La Gage, critico della Gazzette Musicale di Parigi, ne scrisse: “… il suo merito principale consisteva nel saper inventare una melodia declamata, che in ogni aria si marita, per così dire, col pensiero del poeta; dacché egli ha incontrati interpreti capaci di comprendere e di esprimere le sue intenzioni, delle quali non presenta mai che la forma materiale, egli produce sul suo uditorio un’impressione irresistibile, egli ne diviene padrone e può condurlo dove vuole… Bellini dunque non è né grande melodista né grande armonista; ma ha un merito che gli è particolare, e che ha fatto i suoi bei successi, quello di una espressione semplice, giusta, chiara e precisa. Per trovare in Italia compositori che abbiano adottato un simile sistema, bisogna risalire quasi fino alla infanzia della musica drammatica, i cui primi saggi furono ispirati da un pensiero analogo a quello di Bellini e di Romani. Questo pensiero si sviluppò in Francia, e vi divenne dominante; in quel paese si mirò alla verità della declamazione, in Italia all’incontro questo fu d’ordinario trascurata, e si preferì la bellezza della cantilena alla esattezza drammatica. Le creazioni di Bellini dunque sono un ritorno momentaneo verso il passato, ed in questo senso è da prevedersi ch’egli non formerà scuola; si possono imporre alcune abitudini ad alcuni allievi, ma non dar loro una organizzazione, e soltanto alla sua organizzazione Bellini andò debitore di tutte le sue ispirazioni, di tutto quello che è veramente suo, di tutto quello che forma il vero incantesimo delle sue composizioni”. Rossini furoreggiava in Italia ed in Europa con quell’enorme massa di imitatori che facevano di tutto per copiare il suo fare. I risultati non potevano che essere pessimi, le loro composizioni mostravano penuria di creatività e mancanza di stile, non erano che scialbe imitazioni che annoiavano il pubblico. Bellini fu la rivoluzione.

Nel 1829 scrisse “I Capuleti e i Montecchi (Giulietta e Romeo)” e nello stesso anno anche “La Sonnambula”, furono parimenti bene accolte per le loro idee melodiche, la loro freschezza, sebbene la critica rimproverasse loro la povertà dell’orchestra e la semplificazione degli accompagnamenti. Bellini rispose nel 1830 con la “Norma”, un vero e proprio capolavoro dalla tessitura armonica sublime. L’elevatezza di stile, la semplicità dell’espressione, in concorso col delizioso talento di un grande mezzosoprano, Maria Melibran, tragicamente morto a ventotto anni per una caduta da cavallo, innalzarono Bellini alla più grande fama. Fu così che mise piede a Parigi.

Gli impresari francesi, anch’essi stanchi dei successi rossiniani, chiesero a Bellini un’opera per il Théâtre-Italien di Parigi e ottennero “I Puritani di Scozia”. Bellini poteva così scrivere: “Mi trovo all’apice del contento! Sabato sera è stata la prima rappresentazione dei Puritani: ha fatto furore, che ancora ne sono io stesso sbalordito… Il gaio, il tristo, il robusto dei pezzi, tutto è stato marcato dagli applausi, e che applausi, che applausi”. Il successo fu luminoso e il maestro ricevette dal governo la decorazione della Legione d’Onore e nuove glorie l’avrebbero chiamato se una malattia non l’avesse portato via. Morì a Pouteaux il 24 dicembre 1835.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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