Il fascimo e la Crisi del ’29
Salvatorelli e Mira, in questo passo di Storia d’Italia nel periodo fascista, analizzano la risposta del fascismo alla Grande Depressione e l’evoluzione della sua politica economica verso un profondo dirigismo.
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Le Corporazioni non furono che uno degli strumenti, e nemmeno il più importante, dell’interventismo statale nella economia: interventismo che fu bensì presentato come un aspetto fondamentale della politica economica fascista, tendente – secondo i suoi apologeti – alla ricchezza e alla potenza del popolo italiano, ma che, poi, non differiva molto da quella che tutti i governi – compreso quello degli Stati Uniti soprattutto dopo l’elezione del presidente Roosvelt – praticavano, costretti dalla congiuntura economica.
La storia di quegli anni dimostra come nelle strettoie della crisi i governi – compreso il governo italiano – ricorressero spesso ai più vieti e deprecati espedienti dell’ultraprotezionismo doganale, dei divieti di importazione, delle convenzioni bilaterali raggiunte attraverso laboriosi negoziati diplomatici, dei premi alle esportazioni, delle esenzioni tributarie dirette a sostenere certe produzioni industriali o agricole. Il nostro paese, che nell’economia internazionale non poteva certo esercitare un’influenza predominante, in questo frangente seguì gli altri; ciò gli fu in qualche modo facilitato dalla sua già pronunciata tendenza all’eccessivo interventismo statale nel campo economico.
All’interno l’interventismo statale si esplicò in una serie di provvedimenti autoritari che il governo poté prendere senza incontrare resistenza, sia perchè lo smarrimento di tutti i ceti colpiti dalla crisi (iniziata nel 1929) era grande, sia perchè il regime di polizia, ormai collaudato da anni, assicurava la piena obbedienza dei sudditi.
I provvedimenti di più vasta portata furono quelli adottati per superare la crisi finanziaria. Si è già accennato al dissesto delle grandi banche, che divenne acuto nel 1931, e che fu superato col diretto intervento dello Stato. Quando la più importante tra le banche italiane, la Banca Commerciale Italiana, si trovò in gravissima crisi, il governo ne evitò il fallimento rilevando da essa attraverso la Società finanziaria industriale italiana (Sofindit), all’uopo costituita, i capitali e i crediti delle industrie di cui essa si era caricata e che erano immobilizzati per circa quattro miliardi e garantendone il realizzo integrale senza perdite; in compenso la banca cedette allo Stato la maggioranza delle sue azioni ediventò così anch’essa una banca statale, o almeno strettamente controllata dallo Stato. Nello stesso tempo lo stato fornì alla banca un miliardo liquido, per metterla in grado di continuare a esercitare la sua normale attività creditizia.
Sempre in quel critico novembre 1931, il governo deliberò la costituzione di un organismo speciale, l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI), col compito di sostituire le banche di credito ordinario nell’esercizio del credito a lunga scadenza e nell’assumere partecipazioni industriali. Il suo capitale iniziale era fornito dallo Stato; mediante la emissione di obbligazioni esso avrebbe poi dovuto raccogliere una parte del risparmio privato.
Mussolini stesso insediò il Consiglio del nuovo Istituto, alla presenza dei ministri delle Finanze, dell’Agricoltura e delle Corporazioni, e nel suo discorso disse che l’Istituto doveva essere “un mezzo per avviare energicamente l’economia italiana verso la fase corporativa… cioè ad un sistema che rispetta fondamentalmente la proprietà e l’iniziativa privata, ma le vuole anch’esse dentro lo Stato, che solo può l’una e l’altra proteggere, controllare, vivificare”. Anche qui sembra che egli intendesse per corporativismo più che altro l’interventismo statale a oltranza, naturalmente dello stato fascista.
Presto però si riconobbe che i provvedimenti presi non bastavano per smobilizzare l’ingente mole delle azioni e dei crediti delle industrie malata e insieme fornire nuovi crediti alle industrie sane. Maturò così l’esigenza di risolvere il complesso problema con mezzi ancora più vasti, e fu creato, nel gennaio 1933, l’Istituto di Ricostruzione Industriale (IRI), composto di una Sezione immobilizzi, che ereditava tutte le attività e passività da liquidare, e di una Sezione finanziamenti, che con danaro fornito dallo Stato e obbligazioni garantite dallo Stato doveva fare prestiti alle industrie fino alla scadenza dei vent’anni. L’IRI poté assoribire la massa di azioni e di crediti industriali gravanti non solo sulla Banca Commerciale Italiana, ma anche sul Credito Italiano e sul Banco di Roma, e così nel 1934 l’ardua e faticosa opera di sgravio e salvataggio delle banche, iniziata nel novembre 1931, fu portata a compimento, e la crisi finanziaria si poté dire superata.
Il risultato fu senza dubbio una migliore distribuzione di compiti fra gli istituti di credito: alle banche spettò il finanziamento dei cicli di produzione e di vendita delle merci; all’IMI e all’IRI il credito a medio e a lungo termine. Il 13 maggio 1934 fu comunicato ufficialmente che le adunanze dei consigli di amministraizone della Banca Commerciale, del Credito Italiano e del Banco di Roma avevano permesso di constatare la rinnovata efficienza dell’organismo bancario, ricondotto “alle sue classiche funzioni di strumento di compensazione del movimento del denaro e di assistenza ai commerci mediante operazioni di credito ordinario”. L’IRI – sul quale, come disse poi Mussolini, era stata scaricata l’indigestione dititoli industriali che le banche avevano fatta – diventò gradatamente l’organismo attraverso il quale lo Stato venne in possesso, totale o parziale, con forme varie di prestiti e di partecipazioni azionarie, di non pochi dei più importanti complessi industriali italiani.