Antonio Genovesi a Giuseppe De Sanctis

Due lettere di Antonio Genovesi a Giuseppe De Sanctis.

Nella prima, il padre dell’illuminismo meridionale racconta a De Sanctis le modalità di svolgimento della sua prima lezione di Economia. Fu un tripudio stando alle sue parole, ed era convinto di aver piantato un seme importante in quella gioventù presso cui riponeva moltissime speranze per il futuro del regno. Nella seconda Genovesi riflette ed è consapevole dell’utilità delle sue lezioni ma esprime, con cognizione di causa, che per mettere in pratica i suoi insegnamenti e soprattutto per vedersene i frutti il processo sarà molto lungo, ma non si dispera essendo conscio che il sentiero imboccato è quello giusto.

Davide Alessandra

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“Nel dì cinque del corrente feci il mio discorso preliminare, o sia l’apertura alla nuova cattedra con uno straordinario concorso, tuttoché io non avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza niente aver mandato a memoria, ma senza aver niente scritto di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso fu ricevuto con applausi, e subito diffuso per tutta la città. È stata bella: alcuni volevano copiarselo, e io non ho potuto lor dire che dopo averlo detto n’aveva perduto anche l’originale (perché avete a sapere che dalle state passate mi s’è indebolita molto la memoria per due mesi di capogiri). Ben però penso con più comodità stampare un Discorso generale sul commercio. Il giorno seguente cominciai a dettare. Grande fu la maraviglia in sentir dettare italiano. Sicché essendomene accorto nello incominciare la spiegazione dovetti cominciare da’ pregi della lingua italiana, e urtar di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia. Il nostro… il giorno seguente informato della mia lezione, parlò i pregi della lingua greca, e conchiuse che si doveva leggere, scrivere e pensare pretto pretto greco, e abbandonare tutte le altre lingue. Ecco una guerra civile. Che ne dite voi? La mia scuola è sta sempre piena in guisa che molti non ci hanno trovato luogo: ma la maggior parte sono uditori di barba, e di vari ceti. Gli scriventi sono circa 100. I giovani non ancora intendono tutta l’utilità di queste materie, e dove non si sente citar Giustiniano, o Galieno, non troppo sentono del gusto. Ma si vuole andare avanti con coraggio: si ha da rompere questo ghiaccio. Gran moto è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domandano de’ libri di economia, di commercio, di arti, di agricoltura, e questo è buon principio. Quel che mi piace è che in Corte ci ha de’ confidenti del sovrano, che se ne informano con diligenza. Tempo però coloro che non intendono il vero utile del sovrano e de’ suoi vassalli. Dio mi salvi da qualche burasca. Per me son risoluto di sacrificarmi alla gloria e ai vantaggi del monarca e de’ suoi sudditi. Ho veduto il signore Sgariglia, e l’ho raccomandato al suo giudice. Ma ha cattiva causa. Che volete, che m’impegni contra la giustizia? Potremmo essere più amici? Serviamo puramente ambedue questa Santa Divinità, e desideriamo che il signore Sgariglia si lasci meno trasportare da’ suoi puntigli. Il primo punto d’un uomo onorato è di essere giusto. Scrivetigli che si accomodi. Di Napoli li 23 di novembre 1754″.

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“Riconosco assai bene quanta sia grande l’obbligazione che io tengo e terrò sempre con voi e col signor marchese. Ma siccome io sto molto meglio del mio male per la benignità della stagione, e dall’altra parte lo stato di mia casa con un vecchio di 86 anni, e cadente, ed un ragazzo di 8 in mano a gente straniera, e l’altre faccende mie, non mi permettono di distaccarmi troppo da Napoli; così io non sono nel grado di potermi avvalere delle graziose e generose offerte del signor marchese; al quale vi prego di fare da mia parte i più vivi ringraziamenti, e di attestargli quanto son io sensitivo al suo singolare affetto, e alla bontà che ha per me. Le vostre riflessioni economiche sono eccellenti e verissime. Noi faremo quanto possiamo per promuovere questa bella e utile filosofia: ma siamo però sicuri che i frutti non se ne possono trarre che in lunghissimo tempo. Passare dall’ignoranza al sapere si fa in minore o maggior tempo in ragion composta di chi vi passa, e della sua abilità. Un giovane capace in dieci o dodici anni fa tutto il corso degli studi, un meno capace vi porrà più lungo tempo. Maggior tempo ci vuole perché una famiglia passi dalla rozzezza alla perfetta coltura, quanto ella è più composta ed ha più diversi ingegni. Ma un villaggio avrà bisogno di più che mezzo secolo, anche dove abbia valenti promotori. Uno stato poi ha bisogno d’interi secolo per acquistare il vero sapere. E ben la storia ce ne fa chiari. Laonde non è né da maravigliarci se questa scienza pur dianzi tra noi nata faccia poco cammino, né da disperare ch’ella non pervenga qualche giorno al suo fine. Verso la fine del secolo passato noi studiavamo ancora Boivino, e il nome di geometria faceva orrore: ora ciascun vuol pensare alla moderna, se non molto, almeno un poco. E questa è la sorte di tutte le scienze e le arti trai popoli. Gl’inglesi hanno mostra all’Europa tutta quanta, e mostrano ancora, come tutte le scienze e le arti, e principalmente la scienza economica, siedo inseparabili dalla grandezza de’ sovrani. Questa lezione fa più veri scolari che tutte quelle di tutti i filosofi insieme. Voi intanto attendete a filosofare a questo modo, amatemi, e state sano. Di Napoli li 21 di aprile 1759.”

 

 

 

 

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