I Vinattieri di Firenze

La Corporazione dei Vinattieri di Firenze sorse nel 1282 per proteggere osti e venditori di vino.


Si riuniva nella Chiesa di San Martino Vescovo, santo eletto protettore, poi, accresciuta nel numero dei soci, trasferì la propria sede nel Palazzo Bartolommei.

La corporazione aveva un suo speciale statuto, redatto dagli stessi soci, che s’impegnavano a rispettare precise regole: non dovevano vendere vino in giorni d’astinenza, al venerdì le osterie s’aprivano solo dopo la messa e per la festa di San Martino non s’iniziava la mescita prima che il padrone si fosse recato a portare un’offerta al santo.

Tutti coloro che trattavano il vino, sia mercanti, venditori al minuto, locandieri, sensali ed osti erano obbligati, attraverso un giuramento, ad iscriversi.

Era proibito nelle osterie l’allettamento dei viaggiatori a scapito dei colleghi, di fermarli per la strada, obbligandoli ad entrare nel proprio esercizio. In compenso però la corporazione soccorreva gli associati quando i clienti non volevano pagare sequestrando gli averi dei turisti e risarcendo l’oste. Proibito era pure ospitare prostitute e bische.

La disciplina veniva imposta e sorvegliata dai capi dell’arte, che erano 16 in tutto, governati da quattro consoli scelti tra famiglie guelfe, i quali a loro volta erano assistiti da dodici consiglieri.

Per poter fare il vinattiere era necessario, oltre ad avere un’ottima condotta morale, possedere un bel numero di orcioli, misure e bicchieri, che molto spesso mancavano con grande “danno, de cittadini ed in ispecie degli huomini di detta arte”.

Il traffico interno del vino crebbe a dismisura e le colline fiorentine abbondarono di vigneti. Fu iscritto all’Arte, pur non esercitandola, anche Niccolò Machiavelli. In effetti, all’epoca le osterie erano molte più degli alberghi a Firenze, il consumo di vino era enorme e in molti palazzi del centro si trova pure una “buca del vino”, una piccola apertura in basso, fatta a forma di portone dalla quale veniva passato il gotto di vino. Si pensi che il Villano ai primi del Trecento scriveva che si consumavano in città “da cinquantacinque migliai di cogna di vino e quando ve n’era abbondanza circa diecimila cogna più”.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

Bibliografia: C. G. Marchesini, La corporazione fiorentina dei “Vinattieri”

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