Il falso mito delle “scarpe di cartone”

Molto spesso si sente parlare delle famigerate “scarpe di cartone”, con le quali, secondo una diffusa convinzione, i soldati italiani avrebbero affrontato la campagna di Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, andando incontro ad esiti terribili per via delle calzature assolutamente inadeguate, addirittura con la suola realizzata in cartone pressato. In realtà questa è essenzialmente solo una leggenda storica.

I soldati italiani combatterono nel secondo conflitto mondiale con calzature di buona qualità, che, almeno nella loro configurazione ottimale, non potevano certo considerarsi pericolose per i piedi dei soldati. Come modello standard era previsto l’uso dello scarpone adottato nel 1937, che aveva un gambaletto più basso dei precedenti, con la tomaia realizzata in cuoio ingrassato e la suola in legno e cuoio, rinforzata da una chiodatura leggera per le armi a piedi e a cavallo, un diverso modello, con chiodatura da montagna, era in uso alle truppe alpine. Questo particolare tipo di calzatura era stato concepito tenendo presente il clima dell’Europa occidentale e, come ipotesi di impiego, il terreno dell’arco alpino italiano.

Indubbiamente, quando questi scarponi si trovarono ad affrontare l’inverno russo, con i suoi meno quaranta gradi, e le particolari condizioni ambientali del fronte orientale, mostrarono dei limiti. In modo particolare, gravi effetti derivarono dalla mancanza di approvvigionamenti e, dunque, dalla capacità di sostituire efficacemente le dotazioni usurate. L’Esercito Italiano era carente di automezzi, rendendo difficile rifornire rapidamente i raparti in prima linea, specie sulle enormi distanze del fronte russo. Le calzature assegnate ai nostri soldati, seppur di buona qualità, utilizzate nelle lunghe ed estenuanti marce a piedi, nel fango e nella neve del fronte orientale, erano sottoposte ad una inevitabile usura, rendendo necessaria la loro sostituzione entro pochi mesi. L’Intendenza Militare, però, pur avendo i propri depositi nelle adiacenze del fronte, era spesso impossibilitata ad utilizzare i mezzi adeguati per rifornire i reparti. Non è secondario notare come questo tipo di problematica fu assai meno sentita nel 1941, all’epoca in cui era impiegato il CSIR, Corpo di Spedizione Italiano in Russia, che aveva una consistenza numerica piuttosto contenuta e che occupava una porzione ridotta del fronte.  I problemi logistici maggiori iniziarono dal 1942, con la nascita dell’ARMIR, l’Armata Italiana in Russia, una grande unità di notevoli dimensioni composta da una grande moltitudine di soldati, alla quale era assegnato un lungo tratto di fronte, pertanto le linee di comunicazione si allungarono ed il numero di militari da dover rifornire aumentò in modo esponenziale. Un aumento che l’Intendenza non fu in grado di sostenere con dotazioni adeguate, in particolare erano scarsi gli automezzi che avrebbero consentito di portare rapidamente i rifornimenti in prima linea.

Dal punto di vista costruttivo, probabilmente, il principale limite degli scarponi italiani va ricercato proprio nel sistema della chiodatura: aprendo microfori nella suola della scarpa si consentiva il passaggio di una certa quantità di umidità che, ad una temperatura di meno 40 gradi, gelava rapidamente esponendo il piede al congelamento. Per far fronte a tali difficoltà si ricercarono modelli di calzature più efficienti, ad alcuni reparti alpini, in primo luogo al Battaglione “Monte Cervino”, furono dati in dotazione nuovi scarponi con suola gommata in Vibram che risultarono particolarmente adatti a reggere le rigide temperature dell’inverno russo. Allo stesso tempo, studiando un peculiare tipo di stivale utilizzato dalle popolazioni locali, i cosiddetti “valenki”, furono creati stivali in feltro di lana pressato che potevano essere indossati sopra i normali scarponi come una sorta di galosce, oltre ad essere imbottiti di lana o paglia per mantenere gamba e piedi ancor più al caldo ed isolati dal gelo. Purtroppo anche queste dotazioni soffrirono la difficoltà dei trasporti per gli approvvigionamenti, gran parte di esse finì per accumularsi nei magazzini militari senza la possibilità di essere distribuite effettivamente alle truppe al fronte.

Nel complesso può considerarsi solo parzialmente vero che i soldati italiani affrontarono i vari fronti della Seconda Guerra Mondiale con dotazioni e vestiario non sempre all’altezza delle esigenze belliche, ma va definitivamente sfatato il mito degli scarponi di cartone e, con esso, il terribile sospetto che possano esserci state gravi speculazioni sulle forniture militari e, quindi, sulla vita dei nostri soldati.

 

 

 

 

 

 

 

 

Autore articolo e foto: Salvatore De Chiara

 

Salvatore de Chiara, giornalista, cultore di storia militare e collezionista di cimeli bellici. E’ curatore del Civico Museo di Storia Militare di Aversa e membro del comitato scientifico del MOA (Museum of Operation Avalanche) di Eboli.

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4 pensieri riguardo “Il falso mito delle “scarpe di cartone”

  • 14 Ottobre 2020 in 13:33
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    La calzatura impiegata nel corso della seconda guerra mondiale dal Regio Esercito era il mod. 1932 (non 1937)

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    • 14 Ottobre 2020 in 16:29
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      Recentemente ho avuto modo di vedere fotografie di corpi di soldati italiani riesumati in Russia e di notare, tra i miseri resti, anche gli scarponi. Non credo che se fossero stati di cartone questo sarebbe stato possibile.

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      • 17 Ottobre 2020 in 13:40
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        Pensare al cartone pressato è semplicemente ridicolo. Con scarpe in cartone pressato, non dico che non si sarebbe avuta, ma proprio per nessuna ragione, una battaglia come quella di Nikolaewka (non esiste che degli scarponi di cartone, per di più con scarsissime possibilità di ricambio, potessero resistere fino al ’43 e tra l’altro permettere a truppe verosimilmente falciate da congelamenti e cancrene, oltre che prostrate dalla lotta devastante, di sfondare un accerchiamento sovietico e persino salvarsi in gran parte), ma nemmeno la Battaglia di Natale del 1941. Forse non si arrivava nemmeno a Petrikowka… anzi, forse nemmeno a Stalino e Gorlowka, in condizioni così da terzo mondo.

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  • 27 Dicembre 2023 in 18:47
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    Un equivoco è quello di ritenere che di materiale autarchico fosse tutta la calzatura. Il problema dei congelamenti (13% !)
    era dato dalla suola, non dalle tomaie.
    Fu la suola che – costruita con scarti di lavorazione di cuoio e pellami, mescolata alla fibra Presspan – dette problemi. Gravi.
    I materiali eterogenei furono tenuti insieme con un collante sintetico, previa pressatura.
    Una soluzione che già in Francia e nei Balcani aveva mostrato i suoi limiti con circa 3.000 assiderati e costretti subire mutilazioni ai piedi. Si aggravò quando si mandarono ad affrontare i – 20/30 °della Steppa.
    A peggiorare le cose furono anche le chiodature: lasciavano penetrare umidità, neve, acqua….
    Non fu una chiacchiera o una leggenda metropolitana: ci furono migliaia di nostri soldati a testimoniare l’imbecille capacità progettuale della nostra industria, unita all’idiozia degli S.M….
    Basta rileggere Corradi, Bedeschi, eccetera!

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