La battaglia di Sant’Antonio del Salto

Il mattino dell’8 febbraio 1846, Garibaldi guidò centonovanta italiani, divisi in quattro compagnie, da Salto, sulla riva sinistra dell’Uruguay, sino alle alture di Tapevi. A sostenere la manovra c’erano circa duecento cavalieri del colonnello Baez. Giunsero in una località chiamata Sant’Antonio, un sito tra le colline, con due costruzioni malridotte, protette da tettoie di paglia dette saladeros, e, poco distante, una depressione coperta da alberi.

Gli uomini si accamparono all’ombra delle tettoie, Garibaldi, invece, trovò un punto d’osservazione per guardare Baez incalzato da alcuni drappelli nemici che tentavano di ostacolarlo. All’improvviso apparvero sulle colline innumerevoli lance e uomini a cavallo, era un esercito di milleduecento uomini.

Garibaldi diede l’allarme spronando i suoi a dare il massimo: “I nemici sono molti, ma per noi son pochi ancora, non è vero? Italiani, questo sarò un giorno di gloria pel nostro paese; non fate fuoco se non a bruciapelo”. Tre compagnie furono poste dietro una costruzione, quella peggio messa, la quarta dietro l’altra mentre quella valanga di soldati si precipitava dalle colline per circondarli. Dopo poco l’esercito assalitore apparve in tutta la sua forza numerica.

Quando una scarica di fucileria, a meno di trenta passi, segnò l’iniziò del combattimento era mezzogiorno. Durò dodici ore. Garibaldi non attese il riordino delle file nemiche, ordinò agli italiani di lanciarsi al corpo al corpo e così ne derivò una sanguinosa mischia. Giuseppe Guerzoni, un ventenne mantovano che era lì a combattere e che divenne suo biografo, scrisse: “L’anima di Garibaldi era trasfusa in tutti noi; ove appariva Garibaldi si centuplicavano le nostre forze, ed egli era dappertutto in tutti i gruppi la sua voce confortatrice, il suo esempio rincoravano, rianimavano quasi gli estinti, perchè furon veduti giovani, coperti di otto o dieci ferite da taglio, combattere senza posa quasi fossero ancora sani e robusti, e spirare appena terminata la lotta. La cavalleria nemica fu spettatrice della distruzione della propria fanteria, senza potervi porre riparo ; i suoi ripetuti assalti furono sempre respinti dai nostri, che in un attimo si aggruppavano ed obbligavano interi squadroni a dar volta, lasciando il terreno seminato di cadaveri”. Incredibilmente la fanteria argentina dovette ripiegare ritrovandosi semidistrutta. Restavano solo i milleduecento cavalieri del generale Servando Gómez che avevan messo in fuga Baez ed ora si apprestavano ad assalire gli italiani. Allo squillo della tromba essi si rovesciarono sugli esausti legionari in una lotta accanita. Il trombettiere quattordicenne Rossi fu trafitto da una lancia, ma, gettata via la tromba, sguainò il coltello, si aggrappò alla gamba destra del suo feritore e la crivellò di pugnalate, fino a quando una pallottola lo colpì alla testa. Ne parla ancora Guerzoni: “Fra i tanti un solo esempio citerò di valore pressoché feroce, di cui fui testimonio. Un trombetto, giovane appena di quindici anni, piccolo, tarchiato, rosso di capelli, che durante il combattimento ci aveva continuamente animato coi suoni della sua cornetta, fu da un cavaliere nemico ferito di vari colpi di lancia. Allora gittar la cornetta, sguainare il coltello e avventarsi contro il feritore fu un punto. Indarno questi tentava liberarsene spingendo a carriera il cavallo ; il prode trombetto, avviticchiato alla gamba destra del suo nemico, 1′ andava percotendo con furiosi colpi di coltello ; fino a che lo vidi io stesso abbandonar la sua preda e cader col capo spaccato da un fendente. Nel tempo stesso però il cavaliere precipitava a sua volta trapassato da una palla de’ nostri ; ed esaminandone dopo il combattimento il cadavere gli trovai io stesso la gamba lacerata da parecchie pugnalate, e coli’ impronta dei denti del giovinetto”. Atterrito da simili esempi, che si rinnovavano ad ogni carica mentre Garibaldi spronava i suoi intonando con voce robusta l’inno uruguagio, il nemico si ritirò di qualche centinaio di metri formando un largo cerchio intorno agli italiani ridotti ora a centoquaranta.

L’implacabile sole di quel giorno voleva al tramonto, quando il nemico costatato un rifiuto di ogni trattativa di resa da parte degli italiani e la loro ferma determinazione di morire combattendo, si rassegnò a rinunciare all’assalto quella sera, accontentandosi di tenerli in ostaggio. In realtà, col favore delle tenebre, gli esploratori inviati da Garibaldi scoprirono i cavalieri smontati e allora si dette ordine ai legionari di formare una colonna coi feriti capaci di camminare posti nel mezzo e quelli impossibilitati a farlo portati in spalla dai compagni. Garibaldi stesso si caricò sulle spalle l’alfiere Gaetano Sacchi. Riuscirono così, a passo celere, a passare in mezzo ad un nemico stupefatto e colto alla sprovvista, incapace di rimettere le briglie ai cavalli e montare.

Gli italiani guadagnarono il bosco e l’acqua, ma il nemico non poteva accettare quello smacco e tornò alla carica. Garibaldi fece attendere l’urto e quando gli argentini furono a venti passi ordinò una scarica di fucileria che li pose in fuga. Avevano vinto contro ogni aspettativa. Lasciamo parlare ancora Guerzoni: “In gran silenzio si formò una piccola colonna; i feriti atti a camminare nel mezzo, gl’impotenti sulle spalle, meno due che, doloroso il dirlo, dovemmo abbandonare agonizzanti ed impotenti affatto ad essere trasportati!… Ad un dato segnale si partì compatti, a passo accelerato, decisi a tutto; presimo la direzione del bosco e passammo silenziosi in mezzo al nemico, elio stupefatto del nostro ordine, senza opporre resistenza, ci lasciò libero il varco, e prima ch’egli si fosse riavuto, avesse messo le briglie a’ cavalli, e si fosse posto a inseguirci, noi avevamo già guadagnato il bosco. Una truppa meno affezionata al suo capo, meno agguerrita, dopo una giornata così disastrosa, arsa dalla sete, si sarebbe sbandata appena giunta al bosco, cercando la propria salvezza individuale ed il soddisfacimento di quel possente bisogno che fu il nostro martirio in tutta la giornata ; poche parole che Garibaldi preventivamente ci aveva diretto ovviarono a quello inconveniente; nessuno si sbandò, nessuno corse a dissetarsi al fiume, bensì, ubbidienti all’ordine, tutti si gettarono a terra distesi in una lunga catena e in attesa, silenziosi, del nemico, che non molto si fece attendere. Il suono delle sue trombe ci avvisò del suo avvicinarsi, e poco stante comparvero i suoi squadroni, che noi, silenziosi sempre e nascosti, attendemmo fino alla distanza di venti passi circa per indi salutarli con una salva che li colpì nel più fitto e riesci micidialissima, mettendoli in scompiglio e persuadendoli a dar volta a briglia sciolta! Un grido di Garibaldi allora ci avvisò che era tempo di bere! Soddisfatta la sete, riprendemmo la ritirata verso il Salto, parte seguendo la riva del fiume, altri il bosco. Il nemico ci molestò fino quasi all’ entrata del paese, ma i suoi tiri non ci cagionarono più alcuna perdita”.

A mezzanotte raggiunsero Salto. Garibaldi fu accolto dal tenente colonnello Francesco Anzani della Legione  che, poche ore prima, aveva rifiutato una intimazione di resa. Gli argentini gli avevan detto che Garibaldi era morto a Sant’Antonio e lui aveva risposto: “Venite a prendermi!”. Il nemico, conoscendo la tempra di quegli uomini, aveva rinunciato all’impresa.

Quando la notizia della  vittoria si diffuse a Montevideo il governo, in un’esplosione di gioia popolare, decretò che “Garibaldi e tutti coloro che lo accompagnarono in quella gloriosa giornata fossero benemeriti dell Repubblica”, che tutti i legionari avessero uno scudo da portare al braccio sinistro con l’incisione “Invincibili combatterono l’8 febbraio del 1846” e che sulla bandiera della Legione, nella parte soprastante il Vesuvio, fosse scritto: “Gesta dell’8 febbraio del 1846, operate dalla Legione italiana agli ordini di Garibaldi”. Inoltre alla Legione fu attribuito il posto d’onore in tutte le parate e il successivo 15 ottobre l’intero esercito uruguaiano sfilò dinanzi ad essa gridando “Viva la Patria, viva Garibaldi, viva i suoi prodi”.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: A. Pratta, Garibaldi; A. Scirocco, Giuseppe Garibaldi

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