La Norimberga che non fu per i crimini italiani in Africa

Ancora oggi molti italiani sono convinti che le colonie italiane in terra africana siano ‘cadute’ con la fine della seconda guerra mondiale. Niente di più falso. Come ha dimostrato Antonio M. Morone, l’ultima colonia (la Somalia) terminò solo nel 1960 in piena era repubblicana.

Ancora oggi non abbiamo fatto interamente i ‘conti’ col nostro passato coloniale. E si vede. Afflati e rigurgiti nostalgici riempiono i social media: la memoria si confonde alla storia. L’ombra dei crimini italiani commessi in terra africana sembra cancellata dal mito degli “italiani brava gente “, dell’”opera di civiltà”. A ricordo imperituro di uno dei protagonisti di questi crimini, Rodolfo Graziani, è stato addirittura elevato (a spese del contribuente) un mausoleo nel cimitero di Affile.

Sia chiaro, non stiamo parlando della pietà per i defunti. Tutti meritano di riposare in pace, sì, anche i repubblichini, i gerarchi fucilati a Dongo il 28 aprile 1945, Alessandro Pavolini (comandante delle Brigate Nere), Francesco Colombo (comandante della Muti), i torturatori della banda Koch, gli appartenenti alla Decima Mas, le SS italiane e coloro che fecero parte del plotone d’esecuzione dei quindici partigiani fucilati in Piazzale Loreto il 10 agosto 1944, che la pietà umana ha raccolto nel Campo 10 del Cimitero Maggiore di Milano.

Ma la pietas verso i defunti non può mai cancellare la storia. Se avessero prevalso i nazifascisti, la libertà e la democrazia nel nostro Paese, per la quale hanno dato la loro vita i combattenti per la libertà, non sarebbero state riconquistate. Rimuovere il ricordo di un crimine, inoltre, come ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Allora, perché questo continuo nascondere la testa sotto la sabbia? Perché continuare a negare i crimini italiani in Africa?

Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (e questo grave errore la paghiamo ancora oggi) negarono all’Etiopia l’estradizione di Graziani richiesta per l’uso dei gas vietati da tutte le convenzioni internazionali e per gli eccidi commessi e rivendicati. E più tardi anche Giulio Andreotti volle incontrare l’anziano ufficiale e Viceré d’Etiopia, senza porsi troppi problemi morali. Negli ultimi anni (è giusto ricordarlo), Graziani, nel presidenzialismo senile che lo contraddistinse, divenne addirittura il presidente onorario del Movimento sociale italiano, per poi distaccarsene sdegnosamente. Nel quarto congresso di tale partito (1954) definì la democrazia dei partiti come “un sistema interamente logoro”, esprimendosi per una rinascita delle corporazioni.

Ma non vogliamo fare del moralismo, né tanto meno impartire lezioni di moralità. Vorremmo solo cercare di capire, di comprendere perché tutto questo è stato possibile. Ci sono ovviamente delle precise ragioni storico-politiche. E siccome la conoscenza rende sempre liberi, oggi vogliamo in nome di questa libertà di coscienza raccontare (almeno a grandi linee) la ‘atipicità’ del processo di decolonizzazione italiano. E per quali ragioni non vi fu una Norimberga italiana.

Col trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, l’Italia rinunciò ad ogni diritto e titolo sui possedimenti coloniali in Africa. Ma già durante i lavori della Costituente, il ministro degli Esteri Carlo Sforza dichiarava che appariva ingiusto ed immeritato che l’Italia fosse esclusa “[…] dal continuare a svolgere in Africa […] l’opera di civiltà da essa intrapresa e svolta con infiniti sacrifici e con risultati dal mondo intero pienamente riconosciuti” (Archivio storico della Camera, Atti parlamentari, Assemblea Costituente n.23, Disegno di legge, approvazione del trattato di Pace tra le potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, seduta del 27 giugno 1947). Ma quest’opera ‘di civiltà’, in verità era stata macchiata da innumerevoli crimini.

La Commissione ONU per i criminali di guerra riunitasi a Londra il 29 ottobre 1947 approvò la richiesta dell’Etiopia di includere nelle liste dei criminali di guerra gli italiani. Oltre a Graziani, in queste liste c’erano dieci personalità preminenti della campagna d’Etiopia, tra cui in particolare Pietro Badoglio.

Badoglio, dopo essere stato governatore della Libia, condusse l’invasione dell’Etiopia. Se non ci fossero stati i bombardamenti italiani all’iprite, avrebbe fatto probabilmente la stessa fine di Baratieri ad Adua (1896). Il 25 luglio 1943, come tutti sappiamo venne addirittura chiamato dal re a sostituire Mussolini. Costituito un ministero di funzionari, concluse con gli Alleati l’armistizio di Cassibile (3 sett. 1943) e – reso noto questo dagli Alleati l’8 sett. – abbandonò la capitale trasferendosi col re e le più alte autorità militari a Brindisi.

Osteggiato per il suo passato e per la sua politica ambigua dalle forze antifasciste non monarchiche, Badoglio condusse comunque anche un ministero tecnico (rimaneggiamento del 16 nov. 1943; gabinetto dell’11 febbr. 1944), finché il ritorno di Palmiro Togliatti dalla Russia e l’atteggiamento da questo assunto gli permisero il 22 apr. 1944 di costituire – accordatisi i partiti sulla luogotenenza del principe Umberto – un nuovo gabinetto su più larga base, durato fino alla liberazione di Roma e alla costituzione del ministero Bonomi (10 giugno 1944).

La Commissione di Londra, riunendosi nuovamente il 4 marzo 1948, riconobbe la fondatezza delle accuse presentate dagli etiopici, ed iscrisse otto italiani come responsabili diretti, e due come testimoni. Ma furono i Britannici ad esercitare le loro pressioni per restringere le liste a soli due nominativi. Il 6 settembre successivo. Addis Abeba richiese la consegna dei due accusati, ricevendo dalle istituzioni italiane dell’epoca un netto rifiuto. In un telegramma segreto, l’ambasciatore italiano a Londra, Gallarati Scotti, comunicava al ministro degli Esteri Carlo Sforza che il Foreign Office considerava “most inopportune” il passo etiopico(Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (ASMAE), Direzione generale Affari Politici (DGAP), Etiopia 1950-57, busta 713, telegramma n.10466 di Gallarati Scotti-Ambasciata italiana a Londra indirizzato al Ministero degli Esteri italiano, 20 settembre 1949).

Non c’era nulla di casuale dall’atteggiamento britannico. Dopo aver spogliato letteralmente l’Eritrea, a seguito della battaglia di Cheren (1941), di tutti gli impianti industriali, i Britannici non volevano rendere più difficile la soluzione del problema delle colonie italiane, proprio per quanto riguardava l’Eritrea. La Gran Bretagna e gli Alleati, in fondo, non avevano alcun interesse a sottoporre i crimini italiani in terra d’Africa a una Norimberga. I Britannici avevano ancora il loro impero. L’Italia, inoltre, era stata cobelligerante e in quel periodo aveva i partiti politici di sinistra più forti e agguerriti d’Europa.

Il ‘compromesso’ anglo-italiano avrebbe da lì a poco portato alla firma del Patto Bevin-Sforza. Per il ministro Sforza la chiave del problema restava Londra e, nei colloqui tra l’ambasciatore Gallarati Scotti e Bevin, il 16 Dicembre 1948, si percepì, da parte inglese, una certa simpatia per le aspirazioni etiopiche sull’Eritrea e la viva preoccupazione per i gravi disordini che avrebbe comportato il ritorno italiano in Tripolitania.

Gli italiani erano pronti ovviamente a fare delle concessioni, pur di mantenere la loro presenza in Africa, con il Ministro Sforza che dichiarò la disponibilità a rinunciare ad una parte dell’Eritrea. Con questa nuova strategia, all’inizio del 1949, Palazzo Chigi inviò nuove istruzioni a Gallarati Scotti per preparare un memorandum da presentare a Bevin, su un possibile mandato italiano o, in alternativa, a discutere il conferimento dell’amministrazione fiduciaria alla nascente Unione Europea, con l’intesa che sarebbe stata l’Italia ad esercitarlo in nome dell’Europa.

Per evitare lo stallo, il Ministro Sforza si recò a Londra a trattare direttamente con Bevin, cercando una soluzione che, tra il 5 e il 6 maggio 1949, venne raggiunta faticosamente e fu così strutturata:

  1. a) per la Libia, sarebbe stato creato un trusteeship (amministrazione fiduciaria) britannico sulla Cirenaica, francese sul Fezzan ed italiano in Tripolitania. Nel periodo di transizione sarebbe continuata l’amministrazione britannica, assistita da un Consiglio consultivo composto da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Egitto (o altro stato arabo) e da un rappresentante della popolazione locale.
  2. b) l’Eritrea, ad eccezione delle provincie occidentali, sarebbe stata ceduta all’Etiopia che, mediante un trattato con le Nazioni Unite, avrebbe dovuto dare garanzia di uno speciale statuto per le città di Asmara e Massaua. Le provincie occidentali sarebbero state incorporate nel vicino Sudan, mentre la Somalia sarebbe stata sottoposta ad un trusteeship internazionale, con l’Italia quale potenza amministratrice (cosa che avvenne).

Il Patto Bevin-Sforza venne bocciato dall’ONU per un solo voto, Il 1º ottobre 1949 a Lake Success, al comitato politico dell’O.N.U., Sforza provò a richiedere l’indipendenza immediata per la Libia e l’Eritrea, ed anche per la Somalia, dopo un periodo di amministrazione fiduciaria italiana. La linea del governo italiano ebbe successo, tranne che sull’Eritrea, che fu sacrifica alle mire del Negus e venne annessa all’Etiopia con un programma ‘federativo’ totalmente disatteso. L’amministrazione fiduciaria sulla Somalia fu accordata il 1º luglio 1950 per dieci anni, e fu l’unico caso che un paese sconfitto in una delle due guerre mondiali risultasse affidatario di un simile mandato.

In luogo della verità storica, la narrazione nazionale del dopoguerra creò così il mito del “bravo italiano”. Gli archivi storici erano ancora o inaccessibili o appannaggio di ex funzionari del regime fascista. La ‘decostruzione’ di questa ‘narrazione’ è stata avviata faticosamente da studiosi e storici, tra cui il compianto Angelo Del Boca, e prosegue tutt’oggi malgrado nell’opinione pubblica italiana permangano tenacemente gli stereotipi, i pregiudizi e le ‘memorie’ edulcorate.

L’Eritrea, dapprima ‘federata’ e poi annessa (illegalmente) all’Etiopia, si sarebbe ribellata nel 1961, avviando per trent’anni una guerra di liberazione che ha portato ulteriori drammi e tragedie nel Corno d’Africa. La Somalia, infine, terminata l’amministrazione fiduciaria italiana (1960), non solo non è riuscita a svilupparsi economicamente e socialmente ma, come ci ha testimoniato la tragica uccisione della giornalista Ilaria Alpi, è diventata anche il teatro di gravi delitti legati all’oscura stagione della Cooperazione italiana degli anni Ottanta-Novanta.

 

 

 

Autore articolo: Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell’esplorazione. Tra le sue ultime pubblicazioni storiche ricordiamo Manfredo Camperio. Storia di un visionario in Africa (Besa editrice, 2019), Il Mar Rosso e Massaua (Historica, 2019) e Patria, colonie e affari (Luglio editore, 2020). Di recente ha pubblicato un volume dedicato alla storia dell’esplorazione italiana intitolato Esploratori lombardi.

Bibliografia: Romano Canosa, Graziani. Il maresciallo d’Italia, dalla guerra d’Etiopia alla Repubblica di Salò, Mondadori, Milano 2004; Leila El Houssi, L’Africa ci sta di fronte. Una storia italiana: dal colonialismo al terzomondismo, Carocci editore, Roma 2021; Antonio Maria Morone, L’ultima colonia. Come l’Italia è tornata in Africa (1950-1960), Editori Laterza, Roma-Bari 2011; Angelo Del Boca, La guerra d’Abissinia (1935-1941), Feltrinelli, Milano 1978; Ian Campbell, Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana, Rizzoli, Milano 2018; Alessandro Volterra e Maurizio Zinni, Il leone, il giudice e il capestro. Storia e immagini della repressione italiana in Cirenaica (1928-1932), Donzelli editore, Roma 2021

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