La tirannide di Alessandro de Medici

Lorenzino De Medici, nato a Firenze nel 1514, uccise Alessandro, suo cugino e Duca di Firenze col tradimento. Fuggito poi a Venezia, scrisse la sua difesa, accusando Alessandro d’essere divenuto un orribile tiranno e di aver soffocato le libertà civili di Firenze. Il testo che segue è un passo tratto dall’Apologia di Lorenzino De Medici.

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Giunto che fu in Firenze, perchè non si avesse a dubitare se gli era tiranno, levata via ogni civiltà, ed ogni reliquia e nome di repubblica, e come fusse necessario per essertiranno non esser men empio di Nerone, nè meno odiatore degli uomini o lussurioso di Caligola, nè meno crudele di Falari, cercò di superare le sceleratezze di tutti. Perchè, oltre alle crudeltà usate nei cittadini, che non furono punto inferiori alle loro, superò, nel far morire la madre, l’empietà di Nerone: parchè Nerone lo fece per timore dello stato e della vita sua, e per prevenire quello che dubitava non fusse fatto a lui: ma Alessandro commesse tale sceleratezza solo per mera crudeltà e inumanità, come io dirò appresso. Nè fu punto inferiore a Caligola col vilipendere, beffare e straziare i cittadini con gli adulterii, con le violenze, con le parole villane, e con le minacce ; che sono agli uomini che stiman l’onore, più dure a sopportare che la morte; con la quale alfine gli perseguitava Superò la crudeltà di Falari di gran lunga: perchè dove Falari puni con giusta pena Perillo dalla crudele invenzione per tormentare e far morire gli uomini miseramente nel toro di bron zo, si può pensare che Alessandro l’avrebbe premiato se fusse stato al suo tempo; poichè egli medesimo cogitava o trovava nuove sorti di tormenti e morti: come, murare gli uomini vivi in luoghi così angusti, che non si potessero nè voltare nè muovere; ma si potevan dire murati insieme con le pietre e co’ mattoni. E in tale stato gli faceva morire e allungare l’infelicità loro più ch’era possibile: non si saziando quel mostro con la morte semplice de’ suoi cittadini. Talchè i sei anni ch’egli visse nel principato, e per libidine e per avarizia e per uccisioni, si posson comparare con sei altri di Nerone, di Caligola e di Falari, scegliendoli per tutta la vita loro i più scellerati; a proporzione però della città e dell’imperio. Perchè si troverà, in sì poco tempo, essere stati scacciati dalla patria loro tanti cittadini, e perseguitati poi moltissimi in esiglio; tanti essere stati decapitati senza processo e senza causa, e totalmente per vani sospetti, e per parole di nessuna importanza; altri essere stati avvelenati e morti di sua mano propria o dei suoi satelliti, solamente per non avere  a vergognarsi di certi che l’avevano veduto nella fortuna in ch’egli era nato e allevato; e si troveranno in oltre essere state fatte tante estorsioni e prede, essere stati commessi tanti adulterii, e usate tante violenze, non solo nelle cose profane, ma nelle sacre ancora, ch’egli apparirà difficile a giudicare chi sia stato più o scelerato ed empio il tiranno, o paziente e vile il popolo fiorentino; avendo sopportato tanti anni così grave calamità; ed essendo allora, massime, più certo il pericolo nello starsi, che nel mettersi con qualche speranza a liberare la patria, e assicurarla per l’avvenire. Ch’ egli non amasse mai persona, anzi ch’egli odiasse ognuno, si conosce; poich’egli odiò e perseguitò con veleni e insino alla morte le cose Sue proprie che gli dovevano esser più care: cioè la madre, ed il cardinale Ippolito de’ Medici ch’era riputato suo cugino. Io non vorrei che la grandezza delle sceleratezze vi facesse pensare che queste cose fussono finte da me per aggravarlo: perch’io sono tanto lontano dall’averle finte, ch’io e dico più semplicemente che io posso, per non le fare più incredibili di quello ch’elle sono per natura. Ma di questo ci sono infiniti testimonii, infiniti esamini, la fama freschissima; donde si sa per certo che questo mostro, questo portento, fece avvelenare la pro pria madre, non per altra causa, se non perchè, vivendo ella, faceva testimonianza della sua ignobilità. Perchè, ancorchè fusse stato molti anni in grandezza, egli l’aveva lasciata nella sua povertà e ne’ suoi esercizi, a lavorar la terra: sin tanto che quei cittadini che avevan fuggita dalla nostra città la crudeltà e l’avarizia del tiranno, insieme con quelli che da lui n’erano stati cacciati, volsono menare all’imperatore a Napoli questa sua madre, per mostrare a sua maestà dond’ era nato colui il quale ei comportava che comandasse Firenze. Allora Alessandro non scordatosi, per vergogna, della pietà ed amore della madre, il quale ei non ebbe mai, ma per una sua innata crudeltà o ferità, commesse che sua madre fusse morta, avanti ch’ella andasse alla presenza di Cesare. Il che quando li fusse difficile, si può considerare, immaginandosi una vecchia che stava a filar la lana ed a pascer le pecore. E s’ella non sperava più ben del suo figliuolo, almeno la non temeva cosa si inumana e sì orrenda. E s’ei non fusse stato, oltre il più crudele, il più insensato uomo del mondo, ei poteva pure condurla in qualche luogo segretamente, dove, se non l’avesse voluta tener da madre, la poteva tener almanco viva; e non volere all’ignobilità sua aggiungere tanto vituperio, e così nefanda sceleratezza.

 

 

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