Storia del Cristianesimo: la Vergine che allatta, storia di una icona discussa

Tra i vari tipi di icone mariane che i crociati portarono dall’Oriente in Occidente, ebbe particolare fortuna il tipo della galaktotrophousa, cioè della Vergine che allatta. L’immagine ebbe vasta diffusione, nelle zone rurali, dove le donne si sentivano più vicine a quelle immagini che ritraevano Maria in una versione così vicina alla loro, ma anche nei cenacoli religiosi che vi lessero la raffigurazione di un nutrimento spirituale.
Erroneamente storici dell’arte come Nikodim P. Kondakov e Charles F. Schweinfurth affemarono che l’icona della Vergine che allatta era sconosciuta a Bisanzio ed era invece sorta in ambito puramente italiano. Tale posizione fu corretta da Nikolay Lichacev, Jean Francois Millet e Oleg Grabar che riconobbero come il motivo fosse ben noto a Costantinopoli ed, anzi, originario dell’Oriente cristiano. Rappresentazioni copte, come per esempio gli affreschi di Bawit e Saqqara, già mostrano l’immagine nel V e VI secolo. Probabilmente fu la grande popolarita delle raffigurazioni della dea Iside che allatta il figlio Horus ad agevolare la diffusione del modello iconografico tra i fedeli cristiani. In ogni caso a Bisanzio questa raffigurazione si innestò con la tipologia classica della Madonna Odigitria.

Nel VIII, una lettera di papa Gregorio II indirizzata all’imperatore Leone l’Isaurico riferiva dell’esistenza a Costantinopoli di una icona “della Santa Madre che tiene tra le sue mani il nostro Signore e Dio e lo nutre col suo latte”. Un manoscritto della scuola evangelica di Smirne, del XI secolo, definiva poi la Vergine nutrice come “i tràpeza” ovvero “la mensa”, attribuendo alla rappresentazione materiale una più profonda interpretazione mistica.

La Vergine è rappresentata a seno scoperto, colta nell’atto di allattare il figlio o in procinto di farlo oppure mentre un singolo getto di latte o distinte gocce del medesimo scendono dal suo seno direttamente nella bocca di Gesù. Secondo Leo Steinberg l’esposizione del seno e la rappresentazione realistica del bambino “forniva ai credenti l’assicurazione che il Dio attaccato alla mammella di Maria si era fatto uomo, e che colei che sosteneva il Dio-uomo, nella sua pochezza, si era garantito infinito credito in Cielo”.

La Virgo Lactans fu un modello ripreso anche per le raffigurazioni di altri personaggi della Scrittura. Affreschi di Kurbinovo, Kastoria, Ocrida, in Macedonia, e a Creta presentano per esempio sant’Anna che allatta Maria ed Elisabetta che nutre Giovanni Battista. Il tema si diffuse man mano che si andò consolidando la tendenza ad umanizzare le figure religiose, a far emergere il loro aspetto affettivo. In particolare nel Duecento e nel Trecento italiano l’immagine divenne uno dei temi preferiti dagli artisti, dai pontefici, dai fedeli. La Vergine che allatta, la galaktotrophousa, finì quindi rappresentata sul timpano centrale della Basilica di San Francesco ad Assisi e nel mosaico della facciata esterna della Basilica di Santa Maria in Trastevere. Da alcuni critici l’opera di Ambrogio Lorenzetti – la Madonna del Latte conservata nel Museo Diocesano di Siena – è considerate ai vertici di questo periodo. La Vergine perde definitivamente le formalità tipiche delle icone orientali ed è rappresentata rivolta al Bambino che a sua volta volge lo sguardo all’osservatore.

Fu il Concilio di Trento, in pieno Cinquecento, a frenare la diffusione di questa immagine. Occorreva evitare immagine di natura sensuale perchè si riteneva potessero fuorviare il fedele. In particolare fu San Carlo Borromeo a trovare sconvenienti le immagini della Madonna del Latte e addirittura molte chiese con questa intitolazione mutarono il loro nome.

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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