Lo sposalizio del mare a Venezia

Defendente Sacchi così descriveva l’antico uso dello “sposalizio del mare” a Venezia sulle pagine del Cosmorama Pittorico nel 1836.

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Venezia presenta sola nella storia lo spettacolo di una nazione, le cui leggi, costumi, usanze pubbliche private non abbiano avuto un lento deperimento, sicchè il mutarsi sia stata l’opera di qualche secolo, tutto avvenne quasi improvvisamente, e Venezia che ha un terzo di secolo era fiorente con proprie instituzioni, usanze, costumi, ora non è più; quella Venezia appartiene alla storia, come Tiro a Cartagine: vi è succeduta una Venezia moderna, e il giovanetto che fosse uscito a venti anni dalla sua patria, e vi ritornasse sessuagenario, dubiterebbe, se non fossero le mura, d’avere scambiato il luogo, perchè più non vedrebbe le vesti che danno quasi la fisonomia esterna di un popolo, più non troverebbe le usanze pubbliche che tracciano il carattere del suo stato civile. Quindi è che già sono diventati argomento di curiosità storiche le usanze veneziane di quarant’anni passati, e benemeriti veneziani o letterati d’altra parte della penisola ne pubblicarono opere ragguardevoli ad illustrarle.

Noi, devoti al nome di Venezia, apprezzando la sapienza di quelle instituzioni che avevano tanta influenza sullo spirito pubblico, la grandezza di quel monumenti che diedero tanto splendore alle arti italiane, ritorniamo volonterosi ad illustrarli in queste carte; ora presentiamo la storia della festa dell’ Ascensione, di una festa che non era già un instituzione di solo clamore popolare, ma sommamente politica, anzi di diritto delle genti, poichè alla cerimonia dello sposalizio del mare, succedeva nei veneziani il preteso diritto ad aver i mari in proprio dominio; e il grande politico Sarpi lo sosteneva con ingegnose ragioni di gius pubblico, e quello che più vale, finchè potè, lo sostenne il senato colle flotte e colle armi.

Scemando queste, a poco a poco si ristrinse l’impero dei mari dai vasti pelaghi al golfo, e infine Venezia più non ebbe neppur quello della laguna. Ma lasciamo le tristi ricordanze, e almen la storia ne richiami l’allegrezza di splendidi tempi.

Intorno agli anni 1177, papa Alessandro III, venuto a disputa con Federico Barbarossa, e restatone sconfitto, prese rifugio a Venezia, e ricovrò sotto l’ali del temuto leone: richiese Federico i Veneziani perchè gli dessero prigioniero il Pontefice, e come gliel negarono, pensò conquistarlo colla forza, mandando suo figlio con molta flotta di navi lunghe contro a Veneziani; ma Ziani doge, armati prestamente trenta navigli, fu incontro ad Ottone, lo vinse e il trasse prigioniero a Venezia.

Reduce il Doge vincitore al Pontefice, questi fra i molti privilegi che gli diede, e le grazie che gli seppe, gli disse: che il mare vi sia soggetto, come la è una sposa al marito, giacchè l’avete acquistato colla vittoria; e il presentò di un anello. I Veneziani applicarono quindi in commemorazione di quella vittoria la festa dell’Ascensione, e vollero che ogni anno il Doge sposasse con quell’anello il mare, a dimostrare il dritto che intendevano avere acquistato sull’Adriatico per la donazione del Pontefice, e in fatti sempre credettero tenerne l’assoluto imperio. Egli è vero che spesso glielo contrastarono le altre nazioni e gli stessi Papi, con ragioni e coll’armi, ma finchè essi furono potenti, seppero tenersi fermi nel loro diritto, e allorchè Giulio II dimandava al veneto ambasciatore Gerolamo Donato, ove era il titolo che comprovava la concessione del Golfo alla repubblica, quegli prestamente gli rispondeva, essere scritto a tergo della donazione fatta da Costantino a S. Silvestro del patrimonio di S. Pietro. Quindi Venezia, regina del mare, correggeva il destino delle altre potenze marittime, e ogni anno ripeteva, anche ne miseri tempi della sua decadenza, la festa che ostentava l’antico suo possedimento.

La vigilia dell’Ascensione si esponevano in S. Marco le Bolle pontificali e preziose reliquie di antichi Santi, si cantavano inni, e solo aveano nella chiesa ingresso le donne, siccome al Giovedì Santo invece ne erano solo ammessi gli uomini. I signori di notte tenevano guardia al tempio, e intorno era una divozione, un affaccendarsi ad apparecchiare la pompa del prossimo dì, che sorgeva lieto fra evviva, fra la folla di forestieri che d’ogni parte convenivano a quelle isole per vedere lo sposalizio del mare. Siccome Venezia sorge in mezzo alle lagune, e conviene per rendersi al mare valicarle di poche miglia, il Senato fe costrurre una nave, la quale adducesse trionfalmente il Doge ed il suo seguito fino oltre al porto di lido; come poi questa nave ducale nel 13 1 1 si fece più magnifica, e fu statuito nel decreto che portasse dugento uomini, venne per leziosità di dialetto denominata il Bucintoro (Ducentorum hominum).

Era il Bucintoro un naviglio più grande di una galea grossa, lungo cento piedi e largo ventuno, avarii piani, e coperto nella parte superiore. Formava nel piano più alto quasi un’ampia sala separata da un lungo corritoio, ed ai lati di essa correano i sedili, e ad un capo nella parte più cospicua sorgeva il trono del Doge. La sala, le finestre che erano intorno, e tutte le pareti interne erano addobbate a ricche stoffe e frangie d’oro, la vòlta di raso cremisi, la parte esterna tutta dorata ed arabescata di begli intagli, dorati pure i cento sessantotto remi che sporgeano dalla parte più bassa senza che si vedesse quelli che li moveano: sulla prora si alzavano gli stendardi della repubblica, al piede del quali era un’aurea statua che rappresentava la Giustizia.

La mattina statuita, dopo terza, il Doge colla signoria salivano il Bucintoro, e squillavano le campane dei tempi e le belliche trombe: dense gravitavano sull’acque gondole, palischermi, peote, adorne difiori, di tende, d’insegne, cariche delle classi delle arti, dei nobili, delle dame, del seniori , de Veneziani e dei forestieri, e quali innanzi, quali addietro alla nave ducale, solcavano la laguna, e dechinando verso i due castelli al mare, porgevano lo spettacolo di una città galleggiante che movea a festività. Allorchè giungeva il Bucintoro a lido ne scendevano il Doge e i Senatori, e penetrati colle turbe nella chiesa di S. Nicolò vi celebravano i divini uffici, e s’invocava il favore dello Spirito Creatore dell’universo.

Indi risaliano le barche, uscivano dalla laguna e mettevano in mare, ed ivi fermava la trionfante ducale, e intorno se le attelavano in bell’ ordinanza le altre navicelle. Allora accordavano i sacerdoti i cantici delle scritture a dolcissime melodie, mentre il Vescovo benediceva l’anello, indi lo offriva al Doge. Saliva questi sulla poppa presto a compiere il solenne sposalizio, e tosto facevasi intorno una quiete, un guardare di tutti i circostanti, e batteva soave ne’ petti un pensiero di religione, di speranza e di dominio.

Il Vescovo allora versava in mare un vaso d’acqua santa, e il Doge lasciava cadere sopra questa l’anello pronunziando quelle gravi parole – Mare, noi ti sposiamo in segno di vero e perpetuo dominio.

S’alzava in questo mezzo dalle gondole, dal Bucintoro, dal lido un grido universale d’applauso e di gioia, un clamoroso suonare di strumenti ad allegria, indi un battere di remi in acqua, uno scorrere di barche, un guizzare di schifi sui flutti, uno spiegare di bandiere, un parlare in tutti di presagi, di fortune, di sventure, a maniera che era il cielo torbido o sereno, l’onda salsa o queta o burrascosa, il vento orientale o di tramontana, nell’istante che compieasi l’augusta cerimonia. Intanto le flotte davano volta per Venezia, e mille remi solcavano quell’acque, mille propagati evviva salutavano la città, e quel che redivano coll’alzare le mani, collo spiegare insegne verso coloro che rimasti, dalle torri, dai tetti e dalle case stavano in attenzione del loro tornare, annunziavano che il sacro rito erasi condotto con fausti auspicii. Il Doge poi facea molti inviti in palazzo, a cui venivano i Senatori, gli Ambasciatori e tutti quelli che aveano pubbliche cure nello stato, mentre, nelle case, ne convegni e nelle piazze si faceano per l’intero giorno canti, danze e ricreamenti.

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