Epidemie letterarie. Quando Jules Verne si burlò dei lettori

Di storie celebri sulle epidemie è ricchissimo il patrimonio letterario mondiale. Basti ricordare quanto sia famosa e conosciuta la peste ne I Promessi sposi di Alessandro Manzoni, oppure basta evocare la parola “epidemia” come pretesto letterario per la composizione del Decameron di Giovanni Boccaccio. Albert Camus con La peste scrisse uno dei maggiori testi di esistenzialismo francese, e via discorrendo, fino al crepuscolare Anna di Nicolò Ammaniti, un romanzo che suona beffardamente attuale e tremendamente vero. Un impatto diverso e a tratti davvero esilarante ha invece l’epidemia protagonista del racconto Una fantasia del dottor Ox di Jules Verne, scritto nel 1872 e riproposto in versione antologica due anni più tardi.

Lo scrittore e scienziato francese ci sorprende qui con uno stile nuovo, meno rigoroso, meno prolisso del solito e più immediato. La trama è una fantascienza fintamente distopica, proiettata al disincanto per la scienza e allo stesso tempo suona come un disamoramento sulle funzioni che la tecnologia e la sperimentazione possono avere, come ricaduta, nella vita sociale e nel progresso degli uomini.

La città fiamminga di Quiquendone (ammetto di averla cercata sulle mappe, per quanto lo stesso autore scriva esplicitamente di non provarci, perché nella realtà non esiste) è caratterizzata da un ordine e da una sonnolenza quasi finti. Tutto è perfetto, calmo, posato, ai limite dell’irrealtà. Il dottor Ox (nelle varie traduzioni italiane compare anche la variante Oss) e l’aiutante Ygéne ottengono dal sindaco della cittadina il compito di rifare l’impianto a gas dell’illuminazione pubblica, ma il loro scopo è quello di introdurre nelle condotture ossigeno puro (Ox+Ygéne =Oxygene) per dare nuova linfa e nuovi stimoli a esseri troppi intorpiditi dalla logorante e ripetitiva quotidianità. Ed ecco che un agente invisibile raggiunge capillarmente ogni essere vivente (l’ossigeno è alla base della stessa esistenza della vita sulla terra) fino a intossicarlo.

Verne descrive così l’insunuarsi del nemico invisibile fra le pieghe dell’esistenza e della quotidianità in modo pressoché inarrestabile e subdolo:

“Ebbene, Ygene?
— Ebbene, padrone, tutto è pronto, il collocamento dei tubi è compiuto.
— Finalmente! opereremo oramai in grande e sulle masse!

Nei mesi che seguirono, il male, invece di dissiparsi, non fece che estendersi. Dalle case private l’epidemia si sparse nelle vie; la città di Quiquendone non era più riconoscibile. Fenomeno ancor più meraviglioso di quelli notati fino allora, non solo il regno animale, ma il regno vegetale medesimo non isfuggiva a questa influenza.
Secondo il corso ordinario delle cose, le epidemie sono speciali. Quelle che colpiscono l’uomo risparmiano gli animali; quelle che colpiscono gli animali risparmiano i vegetali. Non si vide mai un cavallo colpito dal vaiolo, nè un uomo dalla peste bovina, ed i montoni non si buscano mai la malattia delle patate. Qui invece tutte le leggi della natura parevano scompigliate. Non solamente l’indole, il temperamento, le idee degli abitanti di Quiquendone si erano modificati, ma gli animali domestici, cani o gatti, buoi o cavalli, asini o capre, subivano l’influenza epidemica come se il loro usato ambiente fosse stato mutato. Le piante medesime si emanciparono, se ci si permette questa parola.

Infatti nei giardini, negli orti, nei frutteti si manifestavano sintomi estremamente curiosi. Le piante arrampicanti si arrampicavano con maggior audacia. Le pianto a ceppo crescevano più vigorose. Gli arbusti divennero alberi. I grani, appena seminati, gettavano il germoglio, e nel medesimo spazio di tempo crescevano tanti pollici quante linee prima nelle condizioni più favorevoli.

…i sintomi più minacciosi si manifestarono e si moltiplicarono di giorno in giorno; per le vie si incontravano persone ubbriache, fra cui spesso i naturali del paese…

Si vede a quale stato deplorabile fosse ridotta la popolazione di Quiquendone. I cervelli ribollivano; l’uno più non riconosceva l’altro. Le persone più pacifiche eran divenute litigiose e bastava le guardaste di sbieco perchè vi mandassero i padrini. Alcuni si lasciarono crescere i mustacchi, ed i più battaglieri li arricciarono a forma d’uncino.
In tali condizioni, l’amministrazione della città, il mantenimento dell’ordine nelle vie e negli edifici pubblici divenivano cosa difficilissima perchè i servigi non erano stati preparati a tale ordine di cose”.

Gli ingredienti ci sono tutti. Panico, euforia, problemi di ordine pubblico, disorientamento. Lo strumento stilistico scelto da Verne è l’ironia amara, perché nella quasi totalità dei casi di grandi epidemie il vero colpevole è l’uomo, coi risultati delle somme dei suoi comportanti scellerati e spesso incomprensibili. Naturalmente nel racconto la normalità è possibile, basta eliminare le infusioni di ossigeno che creano euforia, disorientamento e perdita delle inibizioni e tutto ritorna alla normalità, quello stato che quando viene vissuto genera intolleranza e insofferenza diffuse ma che quando viene sconvolto è generatore di ansie e di paure, tanto che la routine diviene di nuovo la centralità dei nostri desideri.

 

 

 

Autore articolo: Davide Barella, insegnante, si occupa di teatro sociale (scuole, carceri, disabilità) e di promozione della lettura e della letteratura per ragazzi. E’ autore di saggi e articoli sui Ventimiglia, sui cavalieri corsari e su Emilio Salgari.

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