Giudizio su Francesco Crispi

Il merito di promuovere un maggiore dinamismo legislativo gli spetta, ma non seppe frenare l’ascesa socialista con una politica repressiva che sembrò precorrere il fascismo, né dare profondità alla Triplice. Di Crispi così scrisse Nino Valeri (La lotta politica in Italia, Firenze 1962).

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Disposizioni “megalomani” erano già affiorate durante gli undici anni (1876-1887) della dittatura Depretis negli uomini della generazione garibaldina, tediati e mortificati da quella che stimavano una politica interna d’intrighi parlamentari e di sonnacchiosa amministrazione, e da una estera di rinunzie avvilenti. L’aspirazione ad un’Italia grande, quale era apparsa nei primi sogni dei patrioti, congiunta con una nostalgia dell’avventura vissuta negli anni del riscatto, costituiva il fondo della loro insofferenza. Alla morte del Depretis, Francesco Crispi, ministro degli Interni e capo dell’opposizione di Sinistra, assunse quasi di diritto la presidenza, accentando nella sua persona le speranze e le aspettazioni degli scontenti. Egli apparve allora l’atteso, il “pugno di ferro” (come si usava ripetere per una suggestione del dilagante bismarkismo), capace di sollevare la patria “tirandola su per i capelli” e ricongiungendola “all’Italia di Mazzini, di Vittorio Emanuele, di Garibaldi” (Carducci); l’ “uomo energico” (come egli stesso s’era vantato di essere nell’atto di porre la sua candidatura al posto tenuto dal Depretis), dotato dello straordinario potere di galvanizzare “i sette popoli vecchi, decrepiti, viziati”, che in venticinque anni Destra e Sinistra non avevano saputo educare, rifacendoli “seri e virtuosi”.

Com’è noto, la prova dei fatti non corrispose alle attese. Delle qualità costitutive dell’uomo di stato egli possedeva in sommo grado la fermezza, che lo sollevava al di sopra dei partiti e degli interessi contingenti in una solitudine orgogliosa, ma non la realistica capacità di tradurre i forti ideali nella pratica. I giudizi degli studiosi, contrastanti e spesso contraddittori nella valutazione ultima dell’uomo e della parte ch’egli ebbe nella recente storia d’Italia, concordano su questo punto. Si riconoscono esplicitamente le nobili intenzioni dello statista, che, primo forse fra gli uomini di governo della nuova Italia, indicò alte vette alla patria; ma si conviene con altrettanta chiarezza che di quanto gli ferveva nell’anima poco realizzò. “Dell’amicizia con l’Inghilterra non trasse vantaggio. Il tentativo di far della Triplice uno strumento di azione oltre che di conservazione fallì. Vide crollare il piccolo edificio coloniale italiano…” (Volpe). “Alle idee molto chiare nel suo programma generale (scrisse con amabile descrizione il Giolitti) non corrispose una eguale attitudine a curare i particolari e l’esecuzione”. Era “un mezzo grand’uomo di stato” (notò il Barzellotti) in quanto “voleva troppo e fuori d’ogni proporzione con le forze del paese”.

I nazionalisti videro in lui “l’ardito precursore”, “nucleo nuovo di vita”, “strada di luce nel cielo notturno”. Ma questo retorico giudizio è caduto insieme con lo Stato forte e l’imperialismo fascista ch’egli avrebbe annunziato. Storicamente la sua opera viene giudicata di “uomo affatto chiuso nella società del suo tempo, legato alla potenza e impotenza di essa, alle sue volontà e alle sue velleità, capace com’essa di percorrere certe vie, perplesso e incoerente dov’essa era perplessa e incoerente” (Croce). Anche lo Jemolo – il quale pure mostrava d’inclinare a una sorta di nuovo realismo politico come unica via di salvezza della nazione soffocata dai rigidi principi universalistici del Risorgimento – ammette che il Crispi “non fu né tentò essere l’iniziatore di una lenta trasformazione delle ideologie italiane”.

Rimane “l’uomo del destino”: l’illusione ricorrente ogni volta che si offusca la coscienza della libertà, cioè della individuale responsabilità.

 

 

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