Cicerone tra asianesimo e atticismo
Il foro romano era stato dominato, fino al 90 a.C., da due figure eminenti, Marco Antonio, avo del noto triumviro, e Lucio Licinio Crasso. Entrambi furono venerati dal giovane Cicerone, studioso di oratoria.
Di essi l’arpinate lasciò un vivido ritratto nel De oratore e nel Brutus. Nel primo vide la naturale inclinazione all’arte, nel secondo la completezza di tecnica ed educazione. Nel frattempo Cicerone veniva istruito nel diritto da Muzio Scevola l’Augure e Muzio Scevola il Pontefice Massimo, in filosofia dallo stoico Diodoto e dall’accademico Filone, in poesia dai greci Licino Archia e Molone.
Giunto a Roma, Cicerone trovò una città travolta dalle contese politiche, dalle lotte del foro e del senato, l’atmosfera adatta per il suo ingegno mobilissimo e acuto, nutrito d’un patrimonio culturale amplissimo. La sua eloquenza, ribelle a qualsiasi classificazione scolastica, si affermò fuori da ogni schema di tendenze oratorie fino ad allora definite.
L’Urbe era contesa dalla scuola asiana, così nota perché asiatico era il suo ideatore, Egesia di Mileto, inauguratore di un indirizzo retorico frantumato, poetico, concettuale e brillante, e da quella attica, che rimproverava agli avversari di non voler seguire il sobrio purismo arcaico del periodare ampio e lineare. Nell’ambiente tumultuoso e pletorico romano, l’asianesimo era trionfante. Cicerone iniziò il suo noviziato oratorio contrastandolo.
Ortensio Ortalo era l’emblema dello stile dominante e l’arpinate si misurò proprio con lui nel suo primo processo, una causa di diritto successorio in cui difese un tale Quinzio pronunciando la sua prima orazione. Vinse e batté ancora Ortensio Ortalo l’anno successivo, difendendo Roscio Amerino dall’accusa di parricidio. L’asiatico fu battuto pure nel 70, quando Cicerone accusò Verre, il pretore concussionario di Sicilia, e nel 66 nella faccenda della Legge Manilia che dette a Pompeo il comando della guerra mitridatica. Nonostante ciò Cicerone, lo ammise nell’Orator, fu ammaliato dall’eloquenza vistosa del suo rivale e ne subì il fascino, ricorrendo nelle sue prime orazioni ad immagini complesse e parole sonanti.
Il rifiuto dell’uniformità dell’atticismo divenne più consapevole a seguito di un viaggio in Grecia.
Dopo il processo a Roscio Amerino, infatti, tra il 79 e il 77, Cicerone studiò ad Atene e Rodi, ebbe modo di ascoltare Apollonio Molone e di sistematizzare un quid medium fra asianesimo e atticismo che può anche definirsi “indirizzo rodese”. Cicerone capì di dover dominare tutti gli stili e modularli a seconda delle diverse esigenze, sfuggì consapevolmente ad ogni definizione, non cristallizzò un suo stile.
Tornato a Roma, dopo una serie di piccoli processi, ottenne il trionfo con le Verrine, bastò a Verre sentire la prima perché preferisse andare volontario in esilio. Da allora il suo dominio nel foro diventò assoluto e favorì il successo della sua carriera politica. La prima grande orazione politica fu la Pro legge Manilia e risultò irresistibile, carica di forza solenne, di immagini ardite, di splendor verborum. L’effetto fu plebiscitario e a legge fu votata all’unanimità dalle trentacinque tribù di Roma. Tre anni dopo fu consacrato con l’aureola del consolato. Nel 62 a. C., il processo contro Archia gli dette modo di mettere a fuoco la sua teorizzazione del concetto di humanitas. Le tempeste degli anni successivi non spensero la sua eloquenza che, anzi, si riaccese contro Clodio Pulcro, i suoi partigiani e la sua famiglia. Il canto del cigno fu il 52, quando il nemico che l’aveva costretto all’esilio cadde trafitto dai pugnali dei miloniani ed egli, temendo le violenze del popolo e dell’apparato di forze spiegato da Pompeo, non riuscì a pronunciare come scritta la mirabile difesa della Pro Milone. Sino al 46 non tenne alcun grande discorso, si dedicò a meditazioni filosofiche preparando lo spirito per opere come l’Hortensius e il Cato Maior.
Quando tornò a parlare nel senato, ormai in massima parte a lui avverso e dedito a Cesare, aveva affinato e purificato la sua eloquenza al punto tale da commuovere l’imperatore, prima ottenendo il perdono per Marcello, poi perorando il richiamo di Ligario, infine difendendo re Deiotaro.
Ucciso Cesare, le quattordici Filippiche costituirono forse l’espressione più alta della sua oratoria. Senza ondeggiamenti, senza incertezze, rappresentano un individuo che ha chiarito a se stesso i motivi della propria lotta, le connessioni di pensieri, attitudine e agire, lo sforzo supremo di un uomo che con la sua parola invocò la difesa delle antiche libertà, con espressioni nette, non priva di ornamenti stilistici, ma limpide, solenni, ancora oltre atticismo e asianesimo.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
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