Il mancato assassinio di Alessandro III

Dall’8 maggio 1887, cinque giovani studenti erano in attesa di esecuzione nelle loro celle nella prigione della Fortezza di Orešek: Alexandr Ulianov, Pahomii Andreiuşkin, Vasili Gheneralov, Vasili Osipanov e Petr Shevirev. Avevano tra i diciannove ed i ventuno anni, provenivano tutti da famiglie del ceto piccolo-borghese e credevano ciecamente nei principi del marxismo, pur consapevoli del fatto che la classe operaia dell’impero zarista era frammentata, ridotta alle grandi città ed incapace di sostenere da sola una rivoluzione. Pochi mesi prima della condanna a morte, i giovani avevano analizzato il problema convenendo sull’utilità di un gesto ecclatante e violento: l’assassinio di Alessandro III.

Lo zar, convinto che ogni idea di modernizzazione della società russa fosse sbagliata e condannata a generare disordine, rinunciò ad ogni apertura parlamentare e liberale e si orientò a rafforzare l’assolutismo, spingendo per una radicale russificazione della società, che costrinse le minoranze ad usare e studiare la lingua russa e si sostanziò anche in misure antisemite, e consolidando il potere della Okhrana, la polizia segreta, perchè le organizzazioni politiche, studentesche e operaie fossero tenute sotto stretta sorveglianza. Anche l’intelligencija che aveva accolto con grande entusiasmo l’abolizione della servitù della gleba voluta da Alessandro II, restò basita dall’atteggiamento del figlio. Ad Alessandro II si doveva pure l’istituzione dello zemstvo, un organismo di assemblee elettive regionali, a carattere censuale, ma autonome dal governo centrale. L’ampio potere conferito a queste strutture spaziava dalla tassazione all’assistenza medica, ma fu ridotto da Alessandro III che subordinò tutto ai governatori. Le riforme del padre, che lasciavano pensare possibile una completa rimodellazione del paese attorno agli esempi sociali ed istituzionali europei, furono in gran parte ritirate dal figlio in una decisa virata autoritaria: una legge dell’agosto 1881 consentiva ai ministri dello zar di dichiarare la legge marziale, incarcerare persone senza processo, vietare riunioni pubbliche, licenziare funzionari locali e mandare sospetti rivoluzionari in esilio in Siberia. La censura si inasprì.

Esattamente come era accaduto sei anni prima, quando era stato ucciso Alessandro II dalle bombe dei cospiratori di Narodnaja Volja, Nikolaj Rysakov e Ignatij Grinevickij, i rivoluzionari russi puntavano sul regicidio. L’assassinio avrebbe dovuto dimostrare la debolezza del regime zarista e quindi incoraggiare il popolo alla rivolta. I cinque scelsero il giorno dell’attentato, una data simbolica, il 1 marzo 1887, sesto anniversario dell’assassinio dello zar Alessandro II, ed iniziarono a pianificare l’impresa in dettaglio, tuttavia non poterono concretizzare i loro propositi perchè furono catturati dalla polizia segreta dello zar, come parte di un gruppo di quindici persone.

Tutti furono condannati a morte per impiccagione, ma colpì l’atteggiamento di Alexandr Ulianov che, durante il processo, rifiutò l’avvocato e usò i trenta minuti concessi per la difesa per pronunciare, invece, un appassionato discorso sulla rivoluzione.

Lo zar, consapevole che l’impiccagione dei ragazzi non avrebbe migliorato il suo rapporto col mondo contadino ed operaio ed anzi avrebbe esacerbato certe tensioni politico-sociali, pensò di sfruttare l’occasione per rafforzare la propria immagine.

L’8 maggio 1887, poche ore prima dell’annunciata esecuzione pubblica, si aprì la porta della cella dove erano rinchiusi i giovani ed entrò un ufficiale che li informava che Alessandro III era disposto a concedere loro la grazia, ma ad una sola condizione: dovevano manifestare pubblicamente il loro pentimento. L’ufficiale mostrò l’atto di grazia già firmato dallo zar, ma i giovani rivoluzionari rifiutarono categoricamente ogni dichiarazione di pentimento. Non si rinunciò al proposito.

Si ordinò così che i familiari degli studenti fossero condotti sul luogo dell’esecuzione e posti davanti al patibolo. I condannati furono fatti salire sul patibolo, poi sulla sedia ed una corda venne legata al loro collo. Fu letto l’ordine di grazia e la richiesta di pubblico pentimento. Come previsto, le madri dei cinque, disperate e in lacrime, gridarono ciascuna al proprio figlio di pentirsi. Gli ufficiali erano sicuri che, sotto le insistenze dei familiari i rivoluzionari si sarebbero ravveduti, tuttavia, nessuno lo fece.

Si insistette un’ultima volta a cominciare da Petr. Negò ogni sentimento di rimorso e parola di rincrescimento ed il boia gli tolse la sedia dai piedi. Seguirono la medesima sorte Vasili e gli altri, sino ad Alexandr che confermò il suo diniego. Una voce, però, sovrastò il pianto della madre. Era quella di suo fratello appena sedicenne che diceva: “Non dispiacerti, riprenderò da dove hai interrotto”. Quel ragazzo si chiamava Vladimir e tutto il mondo l’avrebbe conosciuto come Lenin. Alexander gli sorrise e cadde ciondolando col collo spezzato.

Secondogenito degli otto figli della famiglia Ulyanov – sua sorella maggiore, Anna, aveva due anni in più, mentre il terzogenito Lenin ne aveva quattro in meno -, Alexandr era nato nel 1866 a Nizhny Novgorod, una città situata nella regione del Volga, ed era soprannominato Sasha. Diplomatosi a  Simbirsk nel 1883, frequentò l’Università di San Pietroburgo per studiare scienze naturali, ma qui sbocciò il suo interesse per la triste condizione del mondo contadino russo.

La famiglia Ulyanov era della classe media, il padre e la madre, Ilya Nikolayevich Ulyanov e Maria Alexandrovna Ulyanova erano impiegati come insegnanti di scuola. Nel 1869 Ilya era pure stato ispettore delle scuole pubbliche e poi, dal 1882, consigliere di stato col privilegio della nobiltà ereditaria. La cultura progressista in cui aveva educato i figli, aprì le loro menti alle istanze socialiste. Quando morì, nel 1886, Alexandr non volle abbandonare gli studi per aiutare la madre vedova, era completamente assorbito dall’attività rivoluzionaria. Era divenuto membro di Narodnaya Volya, i populisti già responsabile dell’assassinio di Alessandro II. Studente di chimica, il gruppo lo usò per la realizzazione di bombe alla nitroglicerina. Quando l’Okhrana l’arrestò per la progettazione dell’attentato ad Alessandro III, finì trascinata in prigione anche Anna, ma fu subito liberata. Non aveva alcun coinvolgimento nell’attentato, viceversa, sin dai primi interrogatori e nel corso del processo, Alexandr si assunse persino delle colpe che non aveva per scagionare quanti più compagni possibile e, quando poté parlare, dichiarò: “Il mio scopo era aiutare nella liberazione dell’infelice popolo russo. In un sistema che non consente libertà di espressione e reprime ogni tentativo di lavorare per il benessere ed il progresso con mezzi legali, l’unico strumento che rimane è il terrore. Non possiamo combattere questo regime in aperta battaglia, perché è troppo radicato e dispone di enormi poteri di repressione. Pertanto, qualsiasi individuo sensibile all’ingiustizia deve ricorrere al terrore. Il terrore è la nostra risposta alla violenza dello Stato. È l’unico modo per costringere un regime dispotico a concedere la libertà politica al popolo”.

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

Bibliografia: L. Fischer, Vita di Lenin; P. Pomper, Lenin’s Brother: The Origins of the October Revolution

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