Napoli e il brigantaggio dal 1860 al 1864

Una recensione del famoso libro di Marco Monnier sul brigantaggio nel Meridione d’Italia tratta da L’esercito Illustrato del 6 aprile 1864.

 

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Sotto questo titolo abbiamo letto nell’ultima dispensa della Revue des Deux Mondes (1° aprile) uno scritto dell’egregio signor Marco Monnier sulle condizioni delle provincie napoletane e particolarmente sul brigantaggio dal 1860 al 1864, scritto così sensato e veritiero che vorremmo per intiero poter riportare se la ristrettezza delle nostre colonne ce lo consentisse, imperocchè siamo persuasi riuscirebbe ai nostri lettori interessantissimo. Ma poichè ciò non possiamo, ci limiteremo a darne un rapidissimo cenno, non però senza riportare in disteso alcuna pagina che il signor Marco Monnier consacra a tributar le meritate lodi a quelle nostre truppe che furono e sono tuttavia adoperate a sanare quella orribile piaga. Il difetto assoluto d’istruzione e la strema miseria del basso popolo e dei contadini, la penuria di vie di comunicazione, la perversità, perchè dir non si può la debolezza, del passato governo, il quale non solo non si occupava di provvedere a suoi popoli quegli elementi essenziali di incivilimento che sono l’educazione, il commercio e l’industria, ma ogni sua cura poneva ad imbarbarirli maggiormente, a spegnere ogni germe di civiltà e di cittadina virtù, e spingeva i più arditi delle masse alle scelleratezze di ogni maniera, accordando loro l’impunità e perfin talvolta onori e cariche; tali sono le cagioni del brigantaggio il quale da epoca immemorabile funesta quelle nostre meridionali provincie, cui la natura per certo non fu men larga dei suoi doni che ad altra terra di questo nostro bel cielo ; cagioni che oramai tutti noi ben conosciamo e che con razionalissimo criterio storico il signor Marco Monnier mette a nuda evidenza onde distruggere all’estero quell’opinione che altri ha interesse a mantenere, che cioè il brigantaggio abbia cagione politica, nuovi vandeesi chiamando quella schiuma di furfanti che devasta le patrie terre, scanna spietatamente vecchie, donne e bambini, e perfin si ciba di carne umana!! A questo oggetto il signor Monnier ricorda come il bandito Borbone e seco lui il re-pontefice abbiano invano tentato di servirsi e di dirigere nei loro particolari interessi il brigantaggio; come v’abbiano sprecato enormi somme di danaro, ed ogni lero più subdola arte: ma sempre invano, poichè nè i Borjes, nè i Tristany ad altro non poterono riuscire che a diventar briganti essi stessi, ad infamarsi, ed a morir tali. L’autore, a sviluppare meglio la sua tesi, dopo dipinte al vivo le condizioni della contrada sotto ogni aspetto, registra i nomi dei più famigerati capi-banda, la loro origine per tutti quanti abbiettissima, le maggiori nefandità perpetrate, ed il ben meritato fine della maggior parte di essi. Quindi, con dati statistici incontestabili, comprova la progressiva decrescenza di quest’orribile flagello. Nel 1861, egli scrive, le bande entravano nei comuni, rubavano le casse, disarmavano le guardie nazionali e ne esportavano le armi; – era quasi una guerra civile che attaccava le novelle autorità. – Nel 1862 le bande s’allontanarono dai siti abitati per devastar le campagne, tagliar gli alberi, scannar il bestiame, incendiare le messi: più non fu che una guerra sociale contro i facoltosi. – Nel 1863 i raccolti furono salvati, e gli atti ordinari dei pretesi borbonici si ridussero a tolte di persone condotte nelle selve e rese quindi contro riscatto: più non erano che violenti speculazioni, colpi di mano di arditi ladri. A confini il brigantaggio politico straniero cessò quasi completamente, in mercè del leale concorso dell’esercito francese. Non si è udito parlare che di due spedizioni, che si terminarono con una doppia rotta, quella dei capi Stramenga e Serragante. Nell’interno, il brigantaggio indigeno diminuisce sensibilmente, e le truppe italiane, dopo tre anni di campagna, ponno ora essere richiamate nel settentrione.

Dopo aver quindi gettato uno sguardo sulla generalità dei briganti, sul loro reclutarsi, sul loro modo di combattere e sulle loro scelleratezze, il sig. Marco Monnier così si esprime in riguardo ai nostri valorosi soldati impiegati in quell’abborrita guerra:

« Volgiamo ora gli occhi su questi soldati italiani trattati a lor volta da briganti, che si abbandonano ad una caccia ingrata, piena di fatiche e di perigli, senza riposo nè tregua, in continuo allarme, correndo incessantemente per burroni e boscaglie con scalate spaventevoli, sotto un sole infuocato e per lunghe notti affondati nella neve e nel fango. Voglionsi forse desolanti cifre per provare le delizie di questi e carnefici – che eccitano tante ire? Un colonnello comandava l’anno scorso 1800 uomini nella Capitanata; talora aveva 500 malati in una volta. Ciascuna compagnia avrebbe dovuto comporsi di 100 soldati, ma non ne somministrava che 35 al più capaci di marciare. In un solo mese 3 ufficiali ed 80 soldati morirono estenuati dalle fatiche. Gli ospedali erano insufficienti; durante mesi intieri i malati stessi non poterono svestirsi nè pur coricarsi sopra un po’ di paglia. Questo reggimento doveva guardare una zona di 100 miglia di perimetro, senza contare le prigioni di Lucera, ove vegliavano continuamente 60 uomini. Una notte, il numero dei malati s’accrebbe tanto che si dovettero porre i tamburini ed i trombettieri di sentinella a queste prigioni. Nel tempo della sementa e della messe i soldati diventavano guardiecampestri e passavano le loro notti nei campi. Frattanto le interminabili marcie, le perquisizioni, le perlustrazioni, le scaramuccie, le imboscate, in una parola la piccola guerra, cento volte più faticosa della grande, continuava dall’alba a sera, e da sera all’alba, senza un momento di riposo; dalla primavera sino all’inverno; e ciò che faceva questo reggimento, tutte le altre truppe in quelle provincie dovevano pur farlo; più di 65000 uomini, fra cui 5000 ammalati, erano in movimento nella primavera del 1863, divisi in zone ed in sotto-zone, frazionate in suddivisioni ed in distaccamenti, di cui ciascuno aveva libertà d’azione e risponsabilità personale; in tal modo tutti, in tutti i gradi della gerarchia, dall’ultimo soldato sino al supremo comandante, avevano un grave carico, sotto il quale non piegarono mai.

– A capo di queste eccellenti truppe, la di cui organizzazione è in gran parte opera sua, il generale Alfonso Della Marmora, sebbene abituato su altri campi di battaglia, a combattere più degni nemici, e che dopo una lunga carriera nobilmente percorsa, elevato alle più alte cariche del regno non poteva aspettarsi nè accrescimento di credito nè maggiori onori dalle campagne comandate contro il brigantaggio, cionondimeno ha accettato la pena, il fastidio, il lavoro incessante e l’enorme risponsabilità di questa umile missione, e vi adempie con infaticabile abnegazione che egli seppe comunicare perfino negli ultimi ranghi del suo esercito. Sotto lui i generali Villarey, Reccagni, Mazè de la Roche, Avenati, Sirtori, Franzini, Pallavicini, si moltiplicano modestamente in innumerevoli spedizioni.

Un solo episodio basterà a dimostrare come sappiano agire i soldati italiani alle prese coi briganti.

– Il 6 aprile 1862, circa 200 banditi raccolti nello Stato Romano, avendo passata inopinatamente la frontiera s’eran gettati sul piccolo villaggio di Luco, sulle sponde del lago Fucino. Il presidio, composto di un sergente e 20 soldati di fanteria, di cui cinque assenti, si asserragliò nella caserma. Sopravvennero i briganti ed intimarono la resa, a cui il sergente rispose « venite a prenderci! . Bentosto la porta fu attaccata, ma essa resistè ai colpi di fucile come a quelli delle ascie. Allora i briganti salirono sul tetto, ne tolsero le tegole e per una breccia gettarono nella caserma fascine accese. Il fumo soffocava, ed il tetto divampava, i soldati invitati ad arrendersi, non rispondevano che sparando sugli avversari, certi che stavano per morire. Il combattimeuto durò tre ore; il tetto in fiamme stava per crollare sugli assediati, allorchè sopraggiunse una pattuglia proveniente dal vicino villaggio di Trasacco. Il caporale che la comandava, erasi, al rumore delle fucilate, diretto alla volta di Luco, e prima d’entrarvi aveva chiesto cosa vi succedeva; gli si era risposto che 15 soldati assaliti da migliaia di briganti stavano per esser bruciati vivi in una caserma. Allora si era rivolto ai suoi dipendenti lor dimandando: – Andiamoci? – Andiamo! risposero quei bravi, ed al grido di Savoia! irruppero nel villaggio. Le scolte dei briganti, colpite da stupore, diedero l’allarme; quelli che erano sul tetto si precipitarono nella strada, quelli dinanzi la caserma fuggirono pei campi, e tutti confusamente cacciati da tutte parti, gettando dietro ad essi i loro fucili ed il loro bottino, si sbaragliarono inseguiti dai 15 soldati liberati.

La banda, dispersa e decimata, non ripassò più la frontiera; colui che la comandava, luogotenente di Chiavone, fu preso e fucilato; Chiavone stesso d’allora in poi non comparve più in alcun luogo; e tutto ciò grazie ad un tratto d’audacia di una pattuglia che passava per caso presso Luco, e questa pattuglia componevasi di cinque uomini!

Questo solo esempio dimostra che i briganti hanno a fare con un esercito veramente eroico; la parola è d’un antico consigliere di Francesco II, Antonio Spinelli. Quest’esercito è l’Italia già fatta, è l’unità nazionale organizzata, disciplinata, pronta a combattere e riunente già 300,000 uomini di tutte le provincie strette dalla fraternità delle armi e dalla religione della bandiera ..

Dopo queste lusinghiere ma ben meritate parole all’indirizzo delle nostre truppe, il signor Monnier tributa pure elogi e non men giusti a quelle guardie nazionali che sì efficacemente cooperarono alla repressione del brigantaggio. Riassunte in fine le vie dal governo italiano adottate e alacremente per spegnere le cagioni di quella schifosa piaga, l’autore raccomanda innanzi tutto di spandere l’idea dell’onore, quell’idea che mantien virtuoso l’uomo, che fa il buon soldato, che è la base della civiltà, e dichiara irremissibilmente perduta nel Napoletano la causa della reazione, com’è invero.

 

 

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