Settembrini e “La Giovane Italia”

Luigi Settembrini nelle sue “Ricordanze” ci lascia un prezioso ritratto della gruppo cospirativo mazziniano chiamato “La Giovane Italia”.

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Quando io andavo a scuola di leggi vi conobbi un giovane calabrese del Pizzo a
nome Benedetto Musolino, di molto ingegno, ma pieno di strani disegni arditi.
Ei non vedeva passare per via un reggimento o una compagnia di soldati, che imbaldanzito come un galletto, ei non mi dicesse: «Se io avessi centomila di quelle punte (e indicava le baionette) sarei liberatore del mondo».
Rivedeva sempre i conti a Cesare, Alessandro, Maometto, Tamerlano, Napoleone. A narrarvi che castelli e come si rimpastava il mondo, e che bei sogni facevamo ad occhi aperti nelle nostre passeggiate, o le dispu te che avevamo, saria lungo assai.
Dopo alcun tempo ei pensando di fare gran cose e gran fortuna fra i turchi, navigò a Costantinopoli; e quivi propose al visir tali e tante riforme nelle milizie, nelle finanze e in tutto da rovesciar proprio sossopra l’impero ottomano.
Voleva diventare pascià, e circoncidersi e chiamarsi Mohammed o Timur
e piantare la mezzaluna a Pietroburgo.
Ma avendo veduto che il visir stava a udirlo piacevolmente, ma del fare non voleva saper nulla, spesivi alquanti mesi e denari, tornossene senza effetto.
Lo rividi in Napoli nel 1834; ed ei mi disse che in Malta aveva letto parecchi scritti della Giovane Italia, e non pure il giornale di questo nome, ma ancora il catechismo della setta che egli aveva portato seco e per prudenza lasciatolo nel suo paese, donde mi promise lo farebbe venire.
Lettori miei, non v’accigliate a questo nome di giovane Italia, e statemi a udire.
Oggi non si vuoI sapere di sette, e va benissimo: ma una volta esse ci sono state,
e per esservi dovevano avere la loro ragione.
Non bisogna scandalizzarsene e biasimarle così a la cieca, ma considerare che in certi tempi e in certi popoli elle sono una necessità, e moltissimi uomini di virtù e di senno credettero bene di appartenervi.
Nei paesi liberi ci sono le parti, le quali sono pubbliche, e adoperano mezzi se non sempre onesti almeno d’un’apparenza legale.
Nei paesi servi ci sono le sette, che sono segrete, e che per ira e corruzione non badano troppo alla qualità dei mezzi.
Le sette sono una necessità della servitù, e cessano quando l’idea che le ha formate non è più né segreta né di pochi, ma pubblica e generale, e deve diffondersi e volare per tutto.
Se volete la farfalla, dovete avere prima il verme.
Allora non potevamo in altro modo intenderci, accordarci, tentare libertà, e spargere il seme di quelle idee che han prodotto il frutto che ora apparisce.
Non abbiate dunque a male se io vi parlo d’una setta.

Io aveva udito a parlare tanto della massoneria e della carboneria, e non avevo
mai potuto saperne o leggerne qualcosa: desideravo però almeno di conoscere questa giovane Italia di cui si faceva allora un gran dire nei giornali; ed ero sempre intorno
all’amico, e gli dimandavo se avesse avuto il catechismo. Egli fattomi aspettare un
pezzo, infine mi diede un libro scritto di sua mano, dicendomi che lo aveva copiato
da una stampa: ed io lo lessi con avidità grande.
Lo scopo era niente meno che cacciare d’Italia non pure tutti i principi, e gli au-
striaci, e il papa, ma i francesi di Corsica e gl’inglesi di Malta, e formare una gran
repubblica militare. Capo supremo un dittatore sedente in Roma: dieci consoli governare le dieci regioni in cui si divideva l’Italia: ogni provincia comandata da un colonnello, ogni municipio da un capitano.
Ciascuno di questi uffiziali aveva un questore o tesoriere, uffiziale anche egli. V’erano poi gli apostoli, commessari dittatoriali o consolari, che avevano speciale incarico di stabilire, ordinare, regolare la setta.
Non adunanze, non colloqui i fra più di due, il convertito comunicare col suo convertitore, e riceveva gli ordini, e li comunicava ad un altro, e si doveva ciecamente ubbidire.
Il giuramento era di fiere parole, e doveva darsi sopra un teschio ed un pugnale. La bandiera un drappo nero su cui era un teschio bianco, e la scritta unità, libertà, indipendenza. Nero il vestimento, simile a quello dei contadini calabresi: le armi una carabina con la baionetta, e un pugnale lungo un palmo.
Dovere di tutti gli affiliati esercitarsi nelle armi, e correre tosto quando i capi li chiamavano, ed era giunto il fatal giorno dell’insurrezione, e il dittatore dava il primo tocco del vespro.
Questa gran macchina mi fece molto maravigliare.
Pensavo tra me: «Se saremo molti, e uniti così, e d’un solo animo, lo faremo veramente un vespro e scoperemo principi papi e forestieri.
È una grande impresa: un’Italia grande, libera, unita, indipendente non c’è italiano che non la voglia: tutto sta nell’unire insieme tanti voleri; e la setta è il caso, perché questa con mezzi semplici e senza pericolo fa trovare uniti molti voleri ed ordinati ad un fine». Così ragionavo allora, e credevo di saperne quanto il Machiavelli. Lodai moltissimo il libro all’amico, il quale poi che m’ebbe fatto parlare lungamente, ed ebbe discusso meco varii punti, infine mi disse: «Ebbene, que-
sto libro l’ho scritto io». «Tu? oh non è questa la giovane Italia fondata da Giuseppe Mazzini?» «No: io le ho dato quel nome già conosciuto, perché se gliene avessi dato un altro, o detto la fondavo io, chi l’avrebbe accettata?
Lo scopo, i principi, i mezzi da adoperare sono gli stessi: pur che venga il bene, la gloria sia pur d’altri, non m’importa.
Tienimi adunque il segreto che affido a te primo e solo, e aiutami a propugnare
questa grande opera». Lo abbracciai, e gli promisi di mettermi seco all’impresa.
Cominciammo noi due a spargere la setta fra i giovani e gli amici cui ci potevamo confidare; e quei volentieri l’accettavano perché a quella età si accetta ogni proposta che pare bella e generosa.
Il mio amico per usare un po’ di santa impostura, e mostrare carte stampate che venivano dall’alto, ebbe a spendere molti quattrini e si privava del necessario nel vitto e nel vestito, e non viveva che in quel pensiero, e sperava che il numero degli affiliati crèscesse tanto, da poter dare egli il segnale della rivoluzione.
E questa fu la giovane Italia sparsa nel regno, e creduta essere quella del Mazzini.
li eravate veramente pazzi!».
Sì, ma senza quei pazzi non ci sarebbe l’Italia quella fede, quella febbre ardente, e quell’entusiasmo, i savi discuterebbero ancora non avrebbero fatto nulla.
Ci volevano i pazzi ed i savi, come in tutte le cose vuole l’ardire ed il senno: ma al cominciare ci vogliono sempre i pazzi.
Ma lasciatemi considerare un po’ la ragione di quella pazzia.
L’unità d’Italia fu sempre antico e continuo desiderio di tutti gl’Italiani intelligenti
Dante voleva l’unità del mondo con a capo l’Italia, la monarchia universale con due capi l’imperatore e il papa; questa era una poesia ma ha il suo valore storico, perchè indica che l’unità religiosa del medio evo era già rotta e divisa in due.
Nel decimo quinto secolo si ordinarono gli stati d’Europa mediante la forza e la conquista in Italia si cercò l’equilibrio tra le signorie, e la libertà municipale impedì l’unità nazionale.
II primo concetto di fondare in Italia uno stato grande e forte fu di Nicolò Machiavelli , il quale ideava un principe cui dava consigli ed ammaestramenti sapienza politica de’ romani, gli diceva di tenere la religione come mezzo, forza ed astuzia, e non aborrire neppure dai delitti che giovano ad un gran fine
La chiesa di Roma udì quei consigli, tenne la religione come mezzo, adoperò forza, astuzia, delitti d’ogni specie, e fondò il suo stato in mezzo d’Italia.
Ci vollero tre secoli dii servitù straniera e clericale, ci volle un gran cumulo di scelleratezze nefande per agguaglarci tutti nel dolore e nella vergogna, per toglierci quel sentimento municipale ci diede una personalità spiccata e ci tenne sempre divisi, fiacchi, e servi.
Come il dolore ci fece risentire, e pensammo a riacquistare libertà, la prima forma che si presentò spontanea fu la repubblica, l’unità nazionale repubblicana una gran lega dei comuni.
E questo fu il concetto rappresentato dal Mazzini, il quale non intese potenza del papa, e credette di abbatterla come quella di ogni principe che è mandato via.
II Gioberti che l’intendeva, ma era poeta più che filosofo, propose la federazione dei principi italiani con a capo il papa.
Oggi l’Italia ha trovato spontaneamente la sua forma politica nella monarchia, la quale sola può conservare l’unità: e l’unità d’Italia vuoI dire caduta immediata del potere temporale del papa, decadimento spirituale, mutamento certo nella coscienza dei popoli, trasformazione deI cattolicismo ma del cristianesimo.
Se l’Italia fosse repubblica non potrebbe essere che una federazione di repubbliche, delle quali più che la metà sarebbero quando si era scolari la forma repubblicana piaceva perché spiccia e breve, ne vedeva altra possibile: ma rimanere ora a quella forma è rimanere scolari non intendere il valore che ha l’Italia unita non solamente per noi ma per tutta Europa anzi pel mondo, del quale l’Italia deve trasformare la coscienza.
Io ero repubblicano allora perché nella repubblica vedevo libertà: esser repubblicano mi parrebbe sfasciare l’unità, e dare l’Italia in mano al papa e allo straniero: la repubblica oggi sarebbe un parricidio.
L’unità d’Italia non è un fatto solamente politico, come l’unità germanica, ma è un fatto anche religioso che avrà lunghe e larghe consequeze fra tutti i popoli cristiani: e se tra gli altri popoli si prepara la grande rivoluzione sociale che si avvicina terribile, in Italia si prepara la coscienza che dovrà informare e guidare quella rivoluzione.
Fintanto che in Italia ci sarà un papa ci deve essere un re, che solo può tenerlo in freno anche essendo credente e cattolico. E se verrà tempo che tutti gli stati di Europa diventeranno repubbliche, ultima fra tutti dovrà essere l’Italia e soltanto dopo che sarà distrutto e dimenticato il papa.

 

 

 

 

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