Il secondo dopoguerra a Napoli

“San Gennaro non dice mai no” è una raccolta di racconti scritti da Giuseppe Marotta ed ambientati a Napoli nel secondo dopoguerra. Il porto cittadino, al centro del Mediterraneo, offriva condizioni ideali per il traffico di sigarette in partenza dai depositi delle coste marocchine nel Dopoguerra. Quanto segue rievoca l’esplosione del mercato nero e il fiorire di venditori di sigarette in ogni vicolo della città.

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Allora come allora, nel marzo del 1947, Napoli, eccettuandone via dei Mille, via Tasso, il viale Elena e poche altre arterie di Chiaia di San Ferdinando del Vomero, era tutta un rione popolare. Napoli era allora un vicolo solo, un “basso” solo, una botteguccia sola.

Dovunque potevate comperare sigarette o pesce fritto, o focacce o castagne o lupini a quintali; c’era anche qualche fragorosa baracca su cui si leggeva “Tiro a segno” oppure “Yvonne, regina dei colossali, pesa 247 chili e allatta suo figlio in proporzione”.

Napoli soggiaceva a un’epilessia di commercio, Napoli vendeva vendeva vendeva anche se nessuno comprava. Sulla Salita Museo, in meno di un chilometro di marciapiede, contai quarantasei venditori di sigarette. Ostentavano “Aurora” e “Chesterfield” in certe loro cassette dal coperchio di rete metallica; taluni avevano un piccolo banco mentre altri non disponevano, per l’esposizione, che della mano con cui non si grattavano; nei vicoli più angusti, sarà stato per deficienza di spazio o di capitale impiegato, tutto si riduceva, su ogni soglia, a una sedia con sopra tre o quattro sparute e sudicie “Camel” che occhi infaticabili custodivano dall’interno dei “bassi”. Non importava vendere molto o vendere poco o non vendere affatto: bastava che si tentasse di vendere. Tanto mi colpì questa frenesia, questa libidine commerciale in fatto di tabacchi, che quando vedevo qualcuno, uomo o ombra, cavare di tasca una sigaretta, non potevo impedirmi di trasalire pensando: la fuma o la vende? (Ma indipendentemente dalle sigarette, per tutto quanto possa occorrervi di americano spero che non vorrete far torto alla città di Napoli. Abbiamo latte, caffè, zucchero, sapone, birra, marmellata, calze, abiti, impermeabili, penumatici, esplosivi, oggetti di igiene intima e forse anche l’introvabile originale Carta Atlantica).

Osservavo quelle montagne di merci e mi domandavo perchè l’Italia, bisognosa com’era di aiuti americani, rivolgesse appelli a Washington e non a Napoli. Vedevo anche, sullo sfondo di quegli Appennini e di quelle Ande di scatole “made in U.S.A.”, il volto crucciato del Presidente Truman: vicoli, vicoli, pensai, rendetegli le sue legioni.

Forcella era, mi assicurano, la roccaforte del mercato nero. (Nero come? Mai sotto il sole vi fu nulla di più confessato e niveo: quelle vendite erano turpi e innocenti come gli amori delle bestie che non sentono il bisogno di nasconderli ai loro simili e al cielo: delle bestie che non mangiarono il frutto dell’albero interdetto).

Nell’antica via di Forcella, ai cui muri i libecci e gli accattoni si grattano da secoli la schiena, affluiva il meglio di quanto i depositi locali del commercio clandestino acquistavano misteriosamente ma regolarmente dagli alleati, oppure si procuravano col sistema di assottigliare il carico degli autocarri e dei treni mediante uomini-scimmia che vi si arrampicavano e che gettavano sacchi e cassette ai complici appostati sui marigini della strada.  “Correntisti” chiamava il popolo questi individui che di solito erano elastici adolescenti e avevano dita affilate come bisturi, prensili come forbici: il nome derivò loro non da depositi bancari ma dalla agilità con cui si trasferivano (un minuto prima sembravano dormire sulla scarpata o sui paracarri o sugli alberi) nella sostanza dei veicoli in corsa. A Forcella mi resi conto che si può vincere qualsiasi guerra, bella o brutta, giusta o ingiusta, voluta o subita, purchè si abbia l’elementare prudenza di schierarsi dalla parte dell’America.

Forcella guastava anche lo scherzo; a un donnone che sorvegliava uno dei banchi più estesi e che mi domandò che diavolo non riuscissi a trovare in quella memorabile parata di cibi, di dolciumi, di manufatti stranieri, risposi ammiccando che mi occorreva una portaerei di tipo recente. Non scorderò il suo sorriso. Mi disse: “Ne sono momentaneamente sprovvista. Però ho modo e maniera… Se volete avere la bontà di ripassare…”.

Forcella era la tomba delle penne stilografiche napoletano e di quant’altro sporgesse dai taschini dei passanti. Più che un furto con destrezza questo sembrava essere un lavoro di potatura. Conveniva, mi avevano avvertito, non indurre in tentazione i ladruncoli che infestavano la zona; a questo scopo si usava indossare un soprabito, avendo cura di abbottonarselo fino al mento. Così feci, sembravo Javert. Gli “scugnizzi” potavano il taschino  del passante ingaggiando fra loro finte lotte, inseguimenti nel corso dei quali lo costeggiavano o lo urtavano o – scusate – lo sorvolavano. Si trattava peraltro di ragazzcci dal cuore tenero, non insensibili alle sollecitazioni del rimorso e della pietà. Non fannio nomi, soltanto date. Alle ore 15 del 30 marzo 1947, nel cuore di Forcella, un antipatico teatrale ometto dai capelli rossi constatò la sparizione della sua penna stilografica e scoppiò a piangere come un orfanello. Gli passerà, pensai. Invece il dolore dell’ometto si acuì col lento trascorrere dei minuti. Egli disse che le conseguenze della sua scomparsa sarebbero state terribili; chiamò Iddio, chiamò i santi, chiamò i non meno incorporei agenti della forza pubblica (precedentemente ho detto che costoro erano introvabili ma ho sbagliato, l’indomani del mio arrivo ne vidi uno soavemente addormentato su un balconcino di via Nardones).

Al fatto: un così spettacoloso dolore non fu senza effetto, vidi i ladruncoli confabulare, tentennare, decidersi; uno di essi si riaccostò al derubato e gli mostrò alcune penne. “E’ questa” esclamò l’ometto antipatico scegliendo a colpo sicuro la migliore. “Da un’ora sto domandando chi l’ha perduta” replicò abbandonandogliela l’interlocutore, e subito si allontanò per sottrarsi alle esclamazioni della folla o perchè gli sembrà di veder giungere un altro ubertoso taschino.

 

 

 

Foto di Angelo D’Ambra

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