Curiosità culinarie piemontesi

Bagna càuda ed agnolotti, parliamo di curiosità culinarie piemontesi

  • La Bagna Càuda

La cucina nizzarda (quella di Nizza Marittima, non quella di Nizza Monferrato) appartiene alla cucina provenzale, e tra i suoi piatti (benchè questo sorprenda i piemontesi) è compresa la Bagna Càuda, che i nizzardi sentono loro. Per inciso, in piemontese si scrive proprio così, “càuda”, e non “caoda”, perché costituisce un’eccezione alle regole della pronuncia. Il motivo dell’eccezione, risiede nell’accentazione del dittongo ”àu”, che fa pronunciare questa U, come la OU francese, ma torniamo alla nostra bagna càuda: quando i piemontesi la scoprono a Nizza, essi subito pensano che il piatto sia trasmigrato in Riviera a causa dei cinque secoli di appartenenza della Contea di Nizza ai domini sabaudi. Questa convinzione, è erronea: in realtà, dato che gli ingredienti della bagna càuda sono quelli propri di un piatto mediterraneo, la logica non può non condurre a pensare che essa sia nata a Nizza, e da Nizza sia pervenuta in Piemonte.

In effetti, aglio, acciughe ed olio, sono componenti tipici della cucina provenzale e della cucina catalana. Esiste una ricetta provenzale con gli stessi ingredienti della bagna càuda, l’ “anchoïade”, che in Catalogna viene preparata con il nome di “anxovada”. Nell’ “anchoïade”, aglio, acciughe ed olio vengono pestati a lungo nel mortaio, fino a che raggiungano la consistenza di una salsa. L’ “anchoïade” si mangia fredda, servendola in recipienti di terracotta accompagnata da un trionfo di verdure crude, che i commensali devono intingere in essa. Dunque, rispetto alla bagna càuda, la differenza è che non viene cotta; non cambia, invece, l’alito carico di aglio il giorno successivo. In Provenza, si ama aggiungere nell’ “anchoïade” qualche cappero; in Catalogna qualche pinolo. Consultando qualche testo di gastronomia provenzale, scopriamo che a Nizza si era soliti mangiare l’ “anchoïade” nel periodo estivo, mentre d’inverno essa veniva cotta e diventava “banha caouda”. L’una veniva mangiata con l’accompagnamento delle verdure estive, l’altra con l’accompagnamento delle verdure invernali. Così leggiamo nel bel libro La cuisine du Comté de Nice di Jacques Médécin: «Depuis plusieurs siècles, les Niçois ont, tout au long de l’année, utilisé les légumes de la saison pour la Banha Caouda, dont la recette est parvenue jusqu’à nous». Questo libro è interessante perchè l’Autore aveva tratto le ricette dell’autentica «cuisine niçoise» direttamente da un quaderno in possesso della sua famiglia fin dal XIX secolo: «Ma douce grand-mère sous la dictée de vieille Tanta Mietta, paysanne de la belle colline de Gairaut, dans les années 1880, avait couché sur les pages d’un cahier les recettes dejà centenaires de sa famille». Ma se la bagna càuda ha le sue radici in Provenza, come è giunta in Piemonte?

È facile rispondere: sulle vie del sale, per mezzo delle quali arrivavano in Piemonte a dorso di mulo non solo le acciughe, ma anche tutte le merci che pervenivano al porto di Marsiglia (come il merluzzo secco o sotto sale, pescato nei mari del Nord, ma ingrediente essenziale della “Polenta e merluss”). E dove si dirigevano gli acciugai, per vendere la loro merce? Verso i mercati, anzi verso Asti, il più grande mercato del Piemonte. Infatti, Asti nel medioevo fu per circa due secoli libero comune, diventando il comune piemontese più ricco, potente e popoloso, nonché con la maggiore estensione territoriale. Quindi Asti era il mercato dove gli acciugai provenzali si dirigevano di preferenza, poiché erano certi di poter vendere la loro merce con sicurezza, giacchè c’era che gliela avrebbe pagata. Le merci introdotte all’interno della città dovevano pagare dazio e venivano annotate in un registro, tutt’ora conservato: consultandolo, possiamo scoprire che nella seconda metà del Trecento entravano in Asti le acciughe provenzali, le aringhe della Bretagna o dalle Fiandre, il merluzzo secco o sotto sale, e il tonno in salamoia. Perché gli acciugai avrebbero portato ad Asti la ricetta della “banha caouda”?

I mercati, sono sempre stati luoghi dove persone di lingue ed abitudini diverse si incontravano e ciascuno imparava dall’altro nuove cose, nuovi modi di trattare i cibi e nuove ricette. Laura Rangoni, nel libro Le vie dell’acciuga, scriveva: «Gli acciugai, oltre che veicolo commerciale, erano tradizionalmente portatori di notizie, e la Chiesa (provenendo essi dalla Provenza, terra di eresia catara) li guardava con sospetto proprio per il pericolo di circolazione di eresie tra la gente più povera». Ecco perché la bagna càuda, dopo essere entrata nelle abitudini alimentari degli astigiani, si irradiò dal Monferrato a tutto il Piemonte. Una cosa curiosa è che, mentre negli antichi testi gastronomici di cucina nizzarda si cita la bagna càuda, essa non compare nei ricettari piemontesi ottocenteschi. Doveva evidentemente essere ritenuta un piatto troppo volgare, se ne I miei ricordi, Massimo D’Azeglio menziona di aver udito in gioventù il detto “La Turin ëd l’aj a l’è cola ch’a spussa” (la Torino dell’aglio è quella che puzza). Dunque, nella Torino ottocentesca, l’appartenenza al ceto più basso si riconosceva, oltre che per l’uso di “I l’hai” in luogo di “I l’heu”, nella prima persona del verbo “avere”, anche per il pesante odore di aglio nell’alito. Ma questo fetore di aglio, era provocato dalla bagna càuda? Non è così sicuro, vista la situazione di estrema indigenza che affliggeva il proletariato torinese.

Non dimentichiamo che l’acciuga sotto sale era molto costosa, a differenza di Nizza, nella quale era disponibile fresca e a poco prezzo dai pescatori. Quanto all’olio d’oliva, estremamente raro, era riservato alla Chiesa per le xresime e le estreme unzioni, dovendosi il popolo accontentare dell’olio di noci o di nocciole. Comunque, la prima testimonianza scritta della bagna càuda si ha solo nel 1875, quando lo scrittore Roberto Sacchetti descrisse quella da lui gustata a Montechiaro d’Asti. Luciano Gibelli, nel suo Dnans ch’a fassa neuit, sosteneva di avere reperito questa ricetta del XVIII secolo, senza però citarne la fonte: “Metterete dentro un recipiente a foco piano, tre once butirro, tre once buon olio, uno due cucchiaroni di fiore et un due spicchi aglio fettate di lungo da levare avanti colore. Giungerete sei bell’acciughe spurate di sale e resca acciarate meschiando a che si siono desfatte”. Ma allora, chi ha inventato la bagna càuda? Alberto Viriglio, nei suoi versi scritti nel 1904, non era riuscito a trovare una risposta: «I l’hai girà, tôirà. L’hai fait passé / Sinquantamila liber e papé: / vivù d-le sman-e ant le bibliòteche, lesù stòrie rôman-e, stòrie greche, / memòrie, bërgamin-e, cômentari, / vôlum e manôscrit rusià dai giari… / E dòp un travaj parèj / L’hai nen pôdù savèj / Chi ch’a fussa l’autôr ëd côla invenssiôn / Ch’a’s-ciama “bagna caôda d’ij pôvrôn”». Bisogna però rilevare una cosa: né nella cucina piemontese, nè nella cucina provenzale, esiste un altro piatto che (come la bagna càuda) debba andare in tavola su un piccolo fornello, il quale deve continuare a scaldarlo per tutto il tempo nel quale si trova sulla mensa. Questa particolarità è tipica delle “fondues” francesi, a base di olio, di vino o di brodo, che prevedono la presenza di uno “chauffe-plat” al di sotto del recipiente nel quale tutti i commensali intingono i cibi infilzati nelle forchette.

Ascendenza transalpina nel DNA della bagna càuda? Di una cosa sono certo: quando intingerete le verdure nella prossima bagna càuda, ricordatevi che noi piemontesi siamo gli unici che mangiamo il cardo crudo, perché in tutti gli altri luoghi viene mangiato esclusivamente cotto.

 

  • Gli Agnolotti

Il Piemonte condivide con il Midi francese, oltre a molte tradizioni culturali, molte tradizioni culinarie. Gli agnolotti, detti in piemontese “agnôlòt” (e anche, scherzosamente, nell’argot torinese, “Ij Gheub”), sono una di queste. Non in tutto il Piemonte però vengono chiamati così: nel Piemonte Occidentale vengono anche chiamati “raviòle” (al femminile), con un nome simile a quello di “ravioles”, con cui essi sono da secoli conosciuti in Provenza, Savoia, Lionese e Delfinato.

Le “ravioles” non coincidono sempre con quelli che nel resto d’Italia vengono chiamati ravioli. La prima attestazione italiana dei ravioli si ritrova nella “Cronica” del 1284 di Fra Salimbene de Adam da Parma: «… nella festa di Santa Chiara mi sono mangiato per la prima volta in vita mia i ravioli senza veste di pasta. E lo dico sì a dimostrare come si è raffinata la ghiottoneria umana in gustare vivande rispetto agli uomini primitivi, che si contentavano di cibi offerti dalla natura». Ci è difficile immaginare come fossero i “ravioli senza veste di pasta”; tuttavia nel 1352 Giovanni Boccaccio, nella novella del Decameron “Calandrino e l’elitropia” li nomina ancora quando descrive il Paese di Bengodi dove «…si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua». Vi è dunque una primogenitura italiana sui ravioli? Sembrerebbe di no, perché il filologo e lessicografo Frédéric Godefroy, autore nel 1881 del monumentale Dictionnaire de l’Ancienne Langue Française du IXe siècle au XVe siècle, alla voce “Ravioles“, cita la data del 1228 come prima attestazione in lingua francese del termine, riportata in un documento ecclesiastico da lui indicato come Ch. d’Et. Chan. de l’Egl. de Noie. Ritroviamo le “ravioles” un secolo dopo, nominate nei documenti delle abbazie del Delfinato. In particolare, vi è un documento redatto nel XIV secolo dal vescovo di Grenoble Antoine Dalpiniac, allo scopo di regolare l’alimentazione e i digiuni dei monaci benedettini del Prieuré de Saint-Laurent a lui sottoposti . In questo documento, il vescovo stabiliva in modo rigoroso quale vitto dovesse spettare, in modo diverso, a «chaque religieux et chaque personne du couvent», più o meno migliore a seconda del ruolo ricoperto (converso, postulante, novizio oppure monaco vero e proprio). In alcuni giorni dell’anno, per la precisione «… le troisième jour de rogations et dans les jours sinodaux» veniva concesso ai monaci che il menu fosse più ricco e, in quelle occasioni, venivano serviti in più «à chaque personne, au commencement du repas, un œuf et trois ravioles». Le “ravioles” dei monaci potevano essere farcite con carne, oppure (durante la Quaresima) soltanto con rape o verdure: «durant la Carême la viande était remplacée par des raves».

Naturalmente, i ravioli di quel tempo, sia in Francia che in Italia, potevano essere ben diversi da quelli a cui siamo abituati, e a volte venivano mangiati anche fritti. Frédréric Mistral, nel suo Lou Tresor dóu Felibrige ci dice in effetti che in Provenza “lou raviolos” (chiamati in occitano anche “raiolos“ e “revuelos“) erano pallotte di carne avvolte nella pasta e «frite dans le saindoux», fritte nello strutto. In Francia, in effetti, essi sono strette parenti di un piatto molto antico, le “rissoles”. Queste sono delle specie di grosse “ravioles” di pasta fresca, a forma a volte di quadrato a volte di mezzaluna, che possono essere sia dolci che salate, con ripieno di carne o di confettura di frutta, che differiscono dalle ravioles perché invece di venire cotte nel brodo vengono di solito passate nell’uovo e fritte o passate in forno.

Altro tipo di pasta molto antica del Midi francese, di preparazione e forma similari alle “ravioles”, come un piccolo cuscino quadrato, sono i “tourtons”, che possono essere salati, gustati caldi con un ripieno di «une purée de pommes de terre, tomme, oignons, gruyère, et oeufs ou épinards, fromage et oignons ou une purée de pomme de terre et tomme de chèvre», oppure anche dolci, con un ripieno di mele. Dunque, come spiegava lo storico Jean-Louis Flandrin nell’articolo “Les pâtes dans la cuisine Provençale”, apparso nel 1989 sulla rivista Médiévales, le “ravioles” sono da secoli parte della cultura della Provenza. Esse venivano cotte non nell’acqua ma in un brodo di gallina, e poi gustate o senza nulla oppure sistemate nello stesso piatto come contorno a una “daube” o un brasato (la “daube” è uno stracotto di manzo cotto nel vino rosso), esattamente come noi gustiamo il brasato con la polenta: «Traditionnellement, les ravioles sont cuites dans un bouillon de poule et servies dans un saladier conçu pour qu’elles s’égouttent ; on les déguste alors très chaudes, en entrée et saupoudrées de râpé, ou en accompagnement d’une viande, en gratin». Le “ravioles” erano così apprezzate che verso la metà dell’Ottocento nel Midi nacque la figura delle “ravioleuses”, ossia delle donne che preparavano artigianalmente a mano grandi quantità di “ravioles” e che poi, munite di una “gavagne”, ossia di un grande cesto colmo di esse, si recavano a venderle sui mercati o di casa in casa. Vi è differenza tra le attuali “ravioles” provenzali e quelle del Lionese, Savoia e Delfinato. Mentre quelle provenzali sono farcite di carni e verdure, in quelle preparate nella zona Rhône-Alpes (Drôme, Isère, Ardèche, Loire, Rhône, Ain, Savoia) sono farcite soltanto con formaggio e prezzemolo, e condite con burro o panna.

Ma facciamo ora in breve excursus tra i vocabolari. Abbiamo detto di Frédéric Godefroy e del suo Dictionnaire de l’Ancienne Langue Française, dove ci dice che nella Francia medievale le “ravioles” erano un «morceau de pâtes contenant du hachis de viande et du hachis de rave en Carême» (“uno scampolo di pasta contenente un trito di carne o un trito di rape in Quaresima”), e di Frédéric Mistral, che confonde le “ravioles” con le “rissoles”. In Piemonte, invece, il primo Vocabolario di Maurizio Pipino (1783) non riporta né la voce “agnolòt”, né la voce “raviòle”. Il successivo Dictionnaire Portatif Piémontais – Francais del Conte Luigi Capello di Sanfranco fa un po’ di confusione, perché traduce la voce piemontese “raviòle” come «Andouillette, Capitolade, Miroton de boeuf, Entremets, de la Galimafrée», che sono tutti piatti francesi di carne assolutamente differenti dalle “raviòle”. Nello stesso vocabolario, la voce “agnoulot” spiega che «On ne connaît pas ce mets en France ; on dit familièrement des ravioles». Nel Dizionario Piemontese Italiano, Latino e Francese, compilato dal Sac. Casimiro Zalli di Chieri (1830), la “raviola“ viene assimilata alla Rissole e viene definita «vivanda fatta di carne trita con erbe cacio e uova, fritta a pezzi schiacciati» mentre l’ “agnolot“ è definito «mangiare fatto di pasta, ripieno di carne, che si cuoce in brodo». Nel Vocabolario Piemontese – Italiano del Sacerdote Michele Ponza (1847) la voce “raviola” recita: “In qualche provincia del Piemonte, sorta di agnellotti ; vivanda fatta con carne trita con erbe, cacio, uova”. Ma pur in mezzo all’incertezza dei termini, è bello scoprire in questi dizionari un modo di dire del piemontese ottocentesco, oggi caduto in desuetudine, ma estremamente grazioso: “Tëmme nen ël fum ëd raviòle”, non temere il fumo delle raviole, nel senso negativo di essere sfrontati, svergognati o impudenti oppure (in senso positivo) essere arditi e intraprendenti.

 

 

 

 

 

 

Autore articolo: Paolo Benevelli

 

historiaregni

Historia Regni è un portale telematico dedicato alla storia, anzitutto quella italiana. Nasce su iniziativa di Angelo D’Ambra, è senza scopo di lucro e si avvale di collaborazioni gratuite. Le foto presenti sono state, in parte, prese da internet e quindi valutate di pubblico dominio. Se gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, non avranno che da segnalarlo al nostro indirizzo email info@historiaregni.it e si provvederà alla rimozione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *