La tragedia delle foibe

Quella delle foibe è una tragedia negata, una strage che ha faticato e fatica ancora ad entrare nella coscienza collettiva italiana, soccombendo al silenzio della ragione della politica internazionale di ieri e di oggi.

Nel maggio-giugno 1945, i partigiani di Tito occuparono Trieste ed in tutta la città, accanto a scritte inneggianti a Stalin, apparvero i motti “Trst je nas” ovvero “Trieste è nostra”. Si trattava di una esplicito programma di conquista: su tutto il territorio si stabilirono autorità amministrative jugoslave che non tardarono a scatenare una repressione brutale contro gli italiani.

Le formazioni partigiane jugoslave occuparono edifici pubblici, municipi, scuole ed imposero fermi, perquisizioni, incarceramento, sequestro dei beni. Per i parenti degli arrestati era una tormentata odissea di notizie, voci, supposizioni, passaggi da un ufficio all’altro alla ricerca dei propri congiunti. Carlo Sgorlon in La grande foiba scrive: “Molti triestini scomparivano. Uscivano per comperare il pane o le sigarette, e non tornavano più. Molti altri, anche più numerosi, venivano prelevati dai partigiani a casa loro, mentre stavano a tavola o a letto, e di essi non si sapeva più nulla, come se si fossero dissolti nell’aria. Chi andava negli edifici occupati dagli slavi a chiedere notizie del proprio congiunto, si trovava di fronte a un muro di gomma che lo respingeva. Pareva che nessuno ne sapesse niente, e che gli interpellati cadessero dalla luna per la meraviglia. Altri ricevettero minacce così taglienti che tornarono a casa terrificati…“.

La violenza non era solo diretta contro fascisti e collaboratori. Tutti vissero giornate di terrore, coprifuoco e sangue. Scomparvero anche preti, carabinieri e finanzieri sorpresi in divisa, insegnanti, avvocati, cittadini qualunque.

Il piano di Tito era di far riconoscere la sovranità di Belgrado sul territorio giuliano e, per farlo, urgeva eliminare ogni forma di “italianismo”, sopprimere ogni opposizione all’annessione, impedire che potessero formarsi autorità italiane antifasciste capaci, per questo, di legittimarsi davanti agli alleati, togliere di mezzo fisicamente chi potesse guidare un movimento anti-jugoslavo.

Le violenze si verificarono su tutto il confine nordorientale, in Istria, a Gorizia, a Monfalcone. In un appello presentato da cittadini di Pola al Presidente del Consiglio Ferruccio Pari si riporta: “la sera del 15 maggio vennero arrestati sei studenti della città, tra i quali noti antifascisti, antinazisti e collaboratori dei partigiani. Per molti giorni nulla si sa della loro sorte, poi il 10 giugno vengono fatti uscire dalle prigioni di Pola, legati strettamente con filo di ferro ad altri 250 detenuti, e deportati per destinazione ignota. Dal giorno dell’arresto nessuno dei famigliari li ha più visti”.

Pochi furono i superstiti che poterono raccontare l’orrore. “Trascorsi giorni di dura prigionia, durante i quali fummo selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri: ‘Facciamo presto, perché si parte subito’. Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze… Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi. Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile, anziché colpirmi, spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 16 fino alla superficie dell’acqua. Cadendo, non toccai fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole: ‘Un’altra volta li butteremo di qua, è più comodo’, pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutive, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese, a Sissano, per tema di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo”. E’ la testimonianza di Giovanni Radeticchio di Sissano.

Al numero di chi è stato inghiottito nelle foibe, i corpi di molti dei quali non sono stati recuperati, andrebbero poi aggiunti i prigionieri deceduti nei campi di concentramento di Tito. Calcolare il numero delle vittime di questa tragedia è forse impossibile.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: G. Oliva, Foibe

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