Memorie della Grande Guerra: il campo di prigionia di Sigmundsherberg

Il campo di prigionia di Sigmundsherberg fu costruito sul finire del 1914 per il concentramento dei prigionieri russi, ma nel 1916 divenne campo di prigionia per soli soldati italiani. Fu uno dei più grandi campi di prigionieri di guerra, poteva contenere 40.000 uomini, ma in realtà i detenuti risultarono sempre in numero superiore, probabilmente raggiunsero le 125.000 unità.
Nel solo 1916 oltre 50.000 prigionieri, suddivisi in squadre, partirono dal campo di Sigmundsherberg per lavorare in fabbriche e miniere dell’Austria-Ungheria, alcune squadre parteciparono alla costruzione della ferrovia di Vienna che doveva collegare la Nordwestbahn alla Nordbahn ed agevolare il transito dei treni diretti al fronte orientale carichi di materiale bellico. L’infrastruttura, lunga 4 chilometri con 220 arcate, fu realizzata in tempi rapidi e la gente del posto la soprannomino “Italienerschleife”, la “bretella degli italiani”. Nell’agricoltura furono impiegati decine di migliaia di ex soldati, che all’arrivo della stagione invernale venivano rinviati al campo.

Le storia che ci rimangono sono tragiche: “Sigmundsherberg – 26 febbraio 1918. Giorni fa in una baracca era morto, nella notte, assiderato e sfinito un povero soldato; nessuno se ne commosse – gli si nascose il capo tra la paglia sudicia e tutti stettero muti. I disgraziati vicini potevano così almeno consumare impunemente la misera razione quotidiana del morto. Solo dopo tre giorno il puzzo del corpo in putrefazione sospese il macabro gioco”.

 

Il momento peggiore si ebbe dopo Caporetto, quando al campo arrivarono migliaia di soldati italiani, per la maggior parte feriti e debilitati per le privazioni imposte dalla guerra. Le condizioni igienico-sanitarie, già precarie, divennero disastrose e in molti vi trovarono la morte per fame e stenti. Tra novembre del 1917 e maggio 1918 morirono 334 prigionieri.

Testimonianza delle violenze è il racconto di Cesare Unti, granatiere, ferito da pallottola subita durante la ritirata di Caporetto. Unti scrive: “…un giorno per non essere stato agli ordini che mi aveva dato un Caporal Maggiore Austriaco mi gonfiò di manate, i miei occhi diventarono neri come un paio di occhiali da sole, io non potendo rovesciarmi perché sarebbe stata morte ciertamente, io gli mandai tante imprecazioni che poi dopo qualche giorno l’ovidi portare via in Barella ammalato; e cosi non soltanto io ma tanti altri disgrazziati come me si usci da un incubo terribile, perché questo uomo era arcolizzato, e quando era arrabiato non sapeva più cosa faceva, e poi perché era comandante di tutto l’ospidale e di tutti noialtri, noi si reclamava dalla suore, che ci volevano bene e parlavano l’italiano come noi, e l’oro ce lo dicevano al Capitano, e all’ora questo gli faceva delle ramanzine, ma poi il Capitano se ne andava rieramo alle solite, oltre soffrir la fame, esser minacciati anche di avere qualche legnata, questo e il colmo? quando l’ui non ci fu più la situazione cambiò subito, e diventò migliore, ci venne un altro, questo era più buono e umano, e non picchiava nessuno”.

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: F. Nicolini, Forte Verena

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