Sguardo sulle industrie del Regno delle Due Sicilie

Massimo Petrocchi, nel suo “Le industrie del Regno di Napoli dal 1850 al 1860”, fornisce un lungo elenco di manifatture esistenti sulla sponda continentale del Regno delle Due Sicilie nell’ultimo decennio di vita del governo borbonico e ben spiega come l’industria nel Meridione d’Italia non solo non fosse così avanzata come quella inglese o francese, ma era ancora ad uno stadio primitivo, con produzioni perlopiù d’uso quotidiano come stoviglie, terraglie, mobili, scarpe, cappelli e guanti. Talvolta questi prodotti erano anche al centro di una notevole esportazione, per esempio verso la Grecia o il Nuovo Mondo, spesso su navigli sardi. Tutto ciò si ricava dagli stessi documenti delle autorità borboniche che confermano gli enormi limiti del sistema manifatturiero napoletano già evidenziati dal Regio Istituto di Incoraggiamento, dal Direttore generale di ponti e strade e dai borbonici liberali.

Per esempio, se a Moliterno si indicavano venticinque operai per manifatture di strumenti agricoli, chioderie e cancelli, nove per ferrature di animali, cinque per manifatture di armi, toppe e coltelli, sei per utensili di ottone e zinco e campane, sei per utensili di latta e stagno e quattro per utensili di rame, la relazione del Ministero dell’Agricoltura Industrie e Commercio precisa che “tutte le manifatture notate in questo quadro si dovrebbero considerare piuttosto come arti isolate, perchè appena à uno, oltre al capo d’arte, un qualche apprendista” e aggiunge che “vere manifatture, ancorché piccole non sono 1. perché tranne alcune non à uno un capital impiegato in materie prime, onde potesse alimentare quotidianamente il lavoro: sicché per lo più, lavoro a richiesta, 2. perché non c’è propriamente divisione di lavoro, ma tutto procede in confuso”. In tali manifatture, continua la relazione, il salario era addirittura in natura.

L’Intendente del Secondo Abruzzo Ulteriore scriveva che “questa provincia, dedita all’agricoltura ed in special modo alla pastorizia, offre per le arti e mestieri stabilimenti appena di secondo ordine, tra per lo ristretto numero di operai, che vi lavorano, e tra per i capitali assai angusti e limitati”. Anche in Basilicata poche erano le industrie, mentre per quanto concerne l’industria della seta in Puglia il Ministero segnala che era in uno stadio obsoleto, mancante sia della conoscenza dell’allevamento dei bachi, sia di quella della buona tiratura della seta, e si proponeva di far venire tecnici dalla Lombardia, evidentemente più progredita in queste lavorazioni. Dove poi, come a Lecce nel 1854, si producevano duemila libbre di seta organzina, le filande non erano sufficienti ad esaurire tutta la trattura.

Sebbene in Terra di Lavoro e nel Salernitano l’industria tessile fosse effettivamente avanzata, il carattere essenziale di questo reparto produttivo nel Regno delle Due Sicilie era ancora legato alla “disseminazione di telai”, tutto era affidato alla lavorazione casalinga, con metodi arcaici, ad opera non di professionisti ma di contadini ed il numero degli operai riportati nelle statistiche era soprattutto il frutto della somma di sparse attività artigiane a domicilio. In una relazione ministeriale si precisava che poche sono le fabbriche formali di tessuti e “l’unica a Napoli è quella del Sig.r Sava, pochi i piccoli stabilimenti con unione di telaj, avendo in pari tempo i medesimi fabbricati simultaneamente altri telaj in altri punti divisi, e che la parte maggiore di tali industriosi tengono i telaj dissemianti in case, e luoghi diversi, e distanti altri in Napoli, altri fuori”.

Problemi avevano anche sia l’industria della canapa, che – secondo la Camera Consultiva di Commercio – si usava quasi esclusivamente per la fabbricazione del sartiame, il cordame navale, ed era più cara rispetto a quelle estere, sia l’industria della filatura a mano di lana, che necessitava delle importazioni di filati da Marsiglia.

Problemi si segnalavano però anche per le fonderie, quasi tutte inoperose perché la concorrenza del ferro di produzione inglese era vincente. Stesso dicasi per l’acciaio: la produzione nazionale era insufficiente e se ne richiedeva dall’Inghilterra per la riparazione delle locomotive di Pietrarsa, persino si ricorreva ad importare tubi per caldaie, cerchi per ruote, pale di ferro, cuscinetti etc. La produzione siderurgica e meccanica era però notevole e la Reale Fonderia forniva lavoro ad un numero variabile di operai tra i 100 e le 150 unità. Imponenti erano il cantiere navale di Castellammare, l’Arsenale di Napoli e poi Mongiana. Questo stabilimento calabrese occupava 280 carbonieri, 100 mulattieri e 100 artefici e manuali, ma, su due alti forni, ne teneva in attività solo uno. Il prodotto – la ghisa – era stimato di gran pregio. Altro stabilimento di pregio era l’Opificio di Pietrarsa, specializzato nella costruzione di pezzi di artiglieria e di marina. A Pietrarsa, che dal 1854 assunse il nome di Officina Ischitella, lavoravano, nell’aprile del 1860, 244 “artefici militari”, 738 “artefici pagani e presidiari” e, nel giugno, 820 “artefici paesani” e circa 230 operai militari, un gran numero se si considera che in quegli anni all’Ansaldo, a Sampierdarena, non vi lavoravano che 480 operai. Come detto, però, non tutta la produzione era autonoma ed era indispensabile la franchigia doganale concessa dal re per i metalli che occorrevano allo stabilimento dall’estero. Pietrarsa lavorava inoltre contro ogni convenienza economica, in sovrapprezzo di fronte all’altra produzione nazionale ed estera, coi guadagni effettivi che erano assai ridotti, basti pensare che le rotaie per le ferrovie nel 1858 costavano 9,70 il cantaio lì dove quelle di provenienza inglese costavano 4,60.

Il governo insomma oscillava tra protezionismo e liberismo, voleva essere autarchico senza trovare le possibilità di rendersi tale ed il regno doveva importare ferro da Cardiff e Glasgow, lamine di ferro da Newcastle, tubi di ottone per la marina da Liverpool, piombo dalla Spagna, cerchi e chiodi dalla Russia, cotone filato da Liverpool, zucchero da Rotterdam.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

Bibliografia: M. Petrocchi, Le industrie del Regno di Napoli dal 1850 al 1860

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