Sordello e Carlo d’Angiò

Sordello da Goito fu il più celebre dei trovatori italiani. Buon musico e buon cantore, cavaliere di Carlo d’Angiò e barone di feudi in Abruzzo.

La fama di Sordello è soprattutto dovuta a Dante. Il fiorentino lo cita nel De vulgari eloquentia (I, 15, 2) come esempio di chi si è allontanato dal proprio volgare municipale e lo inserisce anche tra le anime del Purgatorio nella Divina Commedia dove mostra i principi negligenti e suscita nel viandante la nota invettiva: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”.

Sordello trascorse un lungo periodo formativo alla corte di Azzo VII d’Este, dove conobbe Rambertino Buvalelli che gli fece da maestro per i primi rudimenti dell’arte poetica, si spostò a Verona, poi in Spagna, in Portogallo ed in Provenza dove, dal conte Raimondo Berengario IV, fu insignito della nomina di cavaliere e gli furono donati alcuni feudi.

Durante il soggiorno in Provenza perfezionò la conoscenza della lingua occitana e scrisse il suo componimento più famoso, il Compianto in morte di Ser Blacatz.

Quando il conte morì, nel 1245, Sordello rimase con il suo erede Carlo d’Angiò che il 31 gennaio 1246 aveva sposato l’ultima figlia di Raimondo Berengario IV.

All’indomani dell’ascesa di Carlo, Sordello restò fedele alla corona comitale e dedicò al giovane sovrano appena insediatosi un componimento dal taglio fortemente encomiastico. Il testo è allo stato di frammento e si intitola “Ar ai proat q’el mon non a dolor” ovvero “Ora ho provato che nel mondo non v’è dolore”.

Dello stesso periodo è “Lai al comtee mon segnor voil pregar” cioè “Voglio inviare una preghiera là, al conte mio signore”. Qui con garbata ironia Sordello declina l’invito di Carlo a seguirlo in crociata.

Col nuovo mecenate Sordello ebbe un rapporto di lealtà spingendosi finanche allo sberleffo lirico. Quando poi Carlo d’Angiò fu chiamato dal Pontefice a togliere il Regno di Sicilia a Manfredi, Sordello lo seguì ritornando in Italia.

Carlo d’Angiò giunse via mare, Sordello invece, col grosso dell’esercito angioino, attraversò il Piemonte e la Lombardia finendo prigioniero a Novara nel 1266, forse per debiti di gioco. Fu sicuramente liberato dal suo mecenate ma dopo un periodo travagliato, forse documentato dallo scambio di coblas “Toz hom me van disen en esta maladia” ovvero “Tutti mi vanno dicendo in questa malattia”.

In questi versi il poeta ammalato si lamenta del suo signore che gli dà del brontolone e dell’incontentabile. Una possibile traduzione delle liriche è in A. Petrossi, Sordello – Carlo d’Angiò. Sordello critica: “Tutti mi vanno dicendo in questa malattia che, se io mi confortassi, ciò mi farebbe gran bene; so bene che essi dicono il vero, ma come potrebbe farlo chi è povero di averi ed è sempre malato e sta messo male quanto al signore, all’amore e all’amica? Se ci fosse chi me lo insegnasse, mi conforterei bene”. Carlo d’Angiò replica: “Sordello dice male di me, ma questo non me lo dovrebbe fare, perché io l’ho tenuto caro e l’ho sempre onorato: gli donai gualchiere, mulini e altri possedimenti e gli diedi moglie come lui voleva; ma è folle e noioso, ed è pieno di follia; se qualcuno gli donasse un contado, grato non gli sarebbe”.

Probabilmente riecheggia il breve di Clemente IV sull’indifferenza di Carlo per le sorti di Sordello a Novara. In seguito all’intercessione pontificia però arriva la tanto desiderata liberazione ed un diploma con il quale Carlo d’Angiò concede a Sordello i diritti feudali sul castello di La Morra, nel territorio di Cuneo.

Non sappiamo se il nostro poeta combatté a Benevento, forse sì perché dall’angioino Sordello ottenne la signoria di Civitaquana e Ginestra, nell’Abruzzo, divenendo quindi uno dei nuovi baroni del Regno di Sicilia. Dopo la battaglia di Tagliacozzo ricevette i castelli abruzzesi di Monte Odorisio, Monte San Silvestro, Paglieta e Pila.

Le formule usate nei diplomi sono una grande attestazione di stima da parte del sovrano. Vi si legge “Sordellus de Godio, dilectus miles, familiaris et fidelis noster” e “Sordello de Godio, militi dilecto, familiari et fideli nostro”; tuttavia la critica indaga sui coblas ritenendo Sordello forse incapace di raggiungere i feudi ricevuti perchè troppo lontani e dunque stesore di versi di protesta pur se parodistici.

C’è dunque chi li colloca dopo Tagliacozzo e non durante la prigionia di Novara.

 

 

 

Autore: Angelo D’Ambra

Bibliografia:
G. Bertoni, I trovatori d’Italia
A. Petrossi, Sordello – Carlo d’Angiò

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