Ciro Menotti

Ciro Menotti tenne col Duca di Modena, Francesco IV d’Asburgo-Este, uno strettissimo rapporto su cui gli storici hanno avuto parecchi difficoltà ad indagare. Probabilmente il Duca aveva ambizioni che superavano i confini di Modena e Reggio ed è con queste brame che guardò al progetto rivoluzionario di Menotti che, il 3 febbraio 1831, radunò cinquantasette congiurati nella propria abitazione per iniziare la rivolta. Francesco IV allora con un brusco voltafaccia decise di ritirare il suo appoggio ai ribelli e fece circondare dalle sue guardie la casa di Menotti catturandolo e mandandolo all’impiccagione due mesi dopo. Atto Vannucci, protagonista dei moti toscani del 1848, così ce ne parla (I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848 del 1848).

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Ciro Menotti si lasciava persuadere dal duca di Modena che egli voleva sinceramente l’indipendenza italiana, e che si sarebbe messo alla testa delle falangi rivoluzionarie per cacciare l’Austriaco e dar base in Italia ad una Monarchia costituzionale.

In queste tristi illusioni era mantenuto anche dalle dimostrazioni di stima e di benevolenza che gli venivano dal duca, il quale lo accoglieva sovente nelle sue stanze a segreti colloquii, e lo esortava a continuare alacremente l’opera incominciata. Un giorno si fecero anche promesse solenni, e il duca dette sicurtà al Menotti che mai non sarebbe redarguito di queste pratiche, e che in qualunque evento non solo avrebbe salva la vita, ma andrebbe altresì immune da qualunque condanna.

Molti preparativi per la rivoluzione erano già fatti, e i liberali vivevano lieti anche delle promesse di Francia, ove dalla tribuna eransi proclamate apertamente le simpatie per la causa italiana. Ma altrimenti la pensava Luigi Filippo, il quale, per rendersi accetto alle grandi Potenze, aveva fermato in cuor suo di sacrificare l’Italia. Ciò presentì il duca di Modena, e mutò subito la parte di cospiratore in quella di traditore. Questa mutazione fu preveduta da Ciro Menotti, il quale, per non perdere l’impresa, stabili di affrettare gli eventi. Ma il danno venne d’onde si sperava salute. La necessità di precipitare fu quella che rovinò lui e l’impresa medesima.

La sera del 3 febbraio 1831 Ciro si ridusse in casa sua con alquanti giovani per dar ordine alla rivoluzione, che doveva scoppiare il dì appresso. I nomi di questi prodi voglionsi ricordare per cagion d’onore. Erano: Martinelli già militare sotto il regno d’Italia; Silvestro Castiglioni ex-ufficiale; G. B. Buffini; Nicola Manzini ex-caporale cadetto dei cannonieri; Angelo Ussiglio; due fratelli Fanti; Giuseppe Castelli; Ignazio Bizi; Francesco Casali; Costanzo Buffagni; Sigismondo Giberti; Carlo e Luigi Fabrizi; Giacomo Bignardi; Giuseppe Brevini; Antonio Giacomazzi; Luigi Adoni; Lorenzo Ferrari; Pietro Cavani.

Mentre stavano a consiglio, il duca, avvisatone, accorse armato di trombone, di pistole e di stili come un brigante: aveva seco tutto il suo battaglione con le artiglierie, e intimava agli adunati che si arrendessero, o fulminerebbe la casa.

Alle intimazioni Ciro e i suoi prodi risposero coi loro fucili. Fu una lotta di eroi. Pochi giovani armati del coraggio degli uomin1 liberi resisterono per cinque ore a 1000 uomini armati di cannoni; e dopo maravigliose prove capitolarono a patti di aver salve le vite; ma in onta alla capitolazione furono tutti destinati al carnefice.

Due giorni appresso il duca, sentendo scoppiata la rivoluzione a Bologna, con l’anima piena di paura partì da Modena e si riparò nelle braccia dell’Austria, conducendo seco in ostaggio il Menotti, già destinato cogli altri alla morte fin dal momento in cui era caduto in potere della forza, quantunque con un rescritto promettesse di salvargli la vita. E noto come la rivoluzione modenese scoppiasse poscia in tutto lo Stato, quantunque preso l’uomo che doveva governarla; e come più tardi fosse repressa dalle armi austriache, colle quali il duca tornò trionfante il dì 9 di marzo.

Il Menotti dapprima fu tenuto nelle prigioni di Mantova, ove le pratiche degli amici per liberarlo tornarono vane. Quando il duca tornò spirante vendetta e furore, lo ricondusse seco, e lo destinò alla forca, perchè credeva così di spegnere il vero, uccidendo quello che meglio di ogni altro avrebbe potuto farne testimonianza, col manifestare al mondo il tradimento ducale. Fu creata una Commissione di quindici scellerati per compiere questo misfatto: i quali obbedienti ai cenni del loro padrone, dettero ai 9 maggio condanna di morte all’uomo cui il duca aveva già promesso di salvare in ogni evento la vita. L’abbominevole sentenza ebbe la sanzione ducale ai 21, e fu stabilito che il 26 di maggio sarebbe eseguita. Due ore avanti all’esecuzione Ciro scrisse alla moglie questa commoventissima lettera, che mai andò al suo destino, e che nel 1848 fu ritrovata a Modena fra le carte del cessato Ministero di Buon Governo:

“Carissima moglie,

 Alle 5 12 antimeridiano del 26 maggio 1881.

La tua virtù e la tua religione siano teco, e ti assistano nel ricevere che farai questo mio foglio. Sono le ultime parole dell’infelice tuo Ciro. Egli ti rivedrà in più beato soggiorno. Vivi ai figli e fa loro anche da padre: ne hai tutti i requisiti. Il supremo amoroso comando che impongo al tuo cuore è questo, di non abbandonarti al dolore. Studia di vincerlo, e pensa chi è che te lo suggerisce e consiglia. Non resterai che orbata di un corpo che pur doveva soggiacere al suo fine: l’anima mia sarà teco unita per tutta l’eternità. Pensa ai figli e in essi continua a veder il loro genitore: e quando saranno adulti dà loro a conoscere quanto io amava la patria. Fo te l’interprete del mio congedo colla famiglia. Io muoio col nome di tutti nel cuore, e la mia Cecchina ne invade la miglior parte. Non ti spaventi l’idea dell’immatura mia fine, Iddio che mi accorda forza e coraggio per incontrarla, come la mercede del giusto, Iddio mi aiuterà fino al fatale momento.

Il dirti d’incamminare i figli sulla strada dell’onore e della virtù, è dirti ciò che hai sempre fatto: ma te lo dico perché sappiano che tale era l’intenzione del padre, e così ubbidienti rispetteranno la sua memoria. Non lasciarti opprimere dal cordoglio: tutti dobbiamo quaggiù morire.

Ti mando una ciocca dei miei capelli: sarà una memoria di famiglia. Oh buon Dio! quanti infelici per colpa mia! Ma mi perdonerete. Do l’ultimo bacìo ai figli: non oso individuarli, perché troppo mi angustierei; tutti quattro, e i genitori, e l’ottima nonna, le care sorelle Virginia e Celeste, insomma dal primo all’ultimo vi ho presenti. Addio per sempre, Cecchina. Sarai finché vivi una buona madre dei miei figli! In quest’ultimo tremendo momento le cose di questo mondo non sono più per me. Sperava molto: il sovrano… ma non sono più di questo mondo. Addio con tutto il cuore: addio per sempre: ama sempre il tuo Ciro.

L’eccellente Don Bernardi, che mi assiste in questo terribile passaggio, è incaricato di farti avere queste ultime mie parole. Ancora un tenero bacio ai figli e a te finché vesto terrene spoglie. Agli amici, che terranno cara la mia memoria, raccomanda i figli. Ma addio, addio eternamente”.

L’eccellente Don Bernardi, di cui parla la lettera, e in cui l’infelice si confidava nei supremi momenti, non eseguì la sacra volontà del morente, e consegnò la lettera al giudice Zerbini, dal quale passò alla polizia, tra le carte della quale è rimasta sino al presente.

Chi si sente l’animo compreso da amara tristezza alla memoria di questa turpitudine, si conforti con un fatto di rettitudine accaduto in quel giorno di desolazione e di delitti. In quel medesimo giorno col Menotti moriva vittima della tirannide anche l’avvocato Vincenzo Borelli. Appena fu strangolato, un birro, frugandolo, gli trovò nelle tasche una cambiale: il birro avrebbe potuto prenderla impunemente; ma sentì che non era roba sua, e volò a restituirla alla moglie del morto. E così il birro mostrò maggior onestà e animo più illibato del giudice e del prete.

Ciro Menotti, che aveva sopportato con forte animo i tormenti del carcere, sopportò con cuore sereno la morte. Si mantenne tranquillo, e passeggiò per la prigione recitando il sonetto: Morte che se’ tu mai? Percorse con risoluto passo la via dalla prigione al patibolo, ricordando solo la patria, gli orfani figli e la diletta moglie. Le ultime sue parole furono queste: La delusione che mi conduce a morire farà abborrire per sempre gl’Italiani da ogni influenza straniera nei loro interessi, e li avvertirà a non fidarsi che nel soccorso del loro braccio. Alle ore 8 antimeridiane del dì 26 maggio 1831 il corpo di lui pendeva dalla forca. L’anima n’era volata al cielo, e stava nella schiera gloriosa dei martiri della patria.

Il dì 1° aprile 1848 la famiglia Menotti si recò al cimitero a rendere gli onori funebri al martire, e a consacrare la memoria che il despotismo aveva tentato di rendere infame. Molti cittadini di Modena, un drappello di guardia nazionale e varii toscani intervennero alla pia cerimonia. La signora Virginia Menotti, sorella di Ciro, piantò sopra le ceneri di lui la bandiera italiana, nella quale olla stessa aveva scritte queste parole: Quel giorno in cui morivi assassinato da un tiranno io giurava non più rivedere la patria, che quando libera fosse dai manigoldi. Dopo 17 anni di lagrimevole esilio piacque a Dio onnipotente esaudire il mio voto, e qui sulla tomba, ove dormi, dai buoni compianto, godo finalmente inalberare lo stendardo che ti costò la vita: ho così adempito un sacro dovere: son paga. Gradisci, o mio Ciro, il tributo d’infelicissima donna, che prima del martirio ti ebbe caramente diletto, e fu dopo gloriosa di esserti sorella.

 

 

 

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