Garibaldi in Sicilia

Giorno 11 maggio 1860, venerdì, ore 12,45. I garibaldini al molo di Marsala furono accolti dai picciotti incuriositi ed entusiasti. Garibaldi era sbarcato in Sicilia. Lontani, tre legni borbonici, che avevano indugiato davanti al Lombardo ed al Piemonte nel timore di colpire due vicini vascelli britannici, aprirono il fuoco, ma i colpi non andarono a segno. Poco dopo i garibaldini entrarono in città, accolti dalla folla in festa, mentre un drappello comandato da Giacinto Bruzzesi era filato dritto ad impossessarsi dell’ufficio telegrafico. Troppo tardi, però. L’impiegato aveva già avvisato Trapani dell’approdo di due piroscafi piemontesi. Se ne accorse Giovan Battista Pentassuglia, esperto del mestiere, e fu lui stesso a porre rimedio all’inconveniente. Telegrafò le parole: “Mi sono sbagliato, sono vapori nostri”. Da Trapani gli risposero: “Imbecille”.

Nel frattempo Garibaldi aveva redatto il suo primo proclama in Sicilia. Vi si legge: “Siciliani, io vi ho guidato una schiera di prodi, concorsi all’eroico grido della Sicilia. Resto delle battaglie Lombarde, noi siamo con voi! e noi non chiediamo altro che la liberazione della nostra terra. Tutti uniti, l’opera sarà facile e breve. All’armi dunque! chi non impugna un’arma è un codardo o un traditore della patria. Non vale il pretesto della mancanza d’armi. Noi avremo fucili, ma per ora un’arma qualunque basta, impugnata dalla destra d’un valoroso. I Municipi provvederanno ai bimbi, alle donne e ai vecchi derelitti. All’armi tutti! e la Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera un paese dagli oppressori, colla potente volontà di un popolo unito”. A Marsala non c’era manco l’ombra di un soldato borbonico, eppure sull’isola ce ne erano ventunomila con sessantaquattro cannoni e trentadue navi. I marinai di quei tre legni, passarono alle scialuppe per giungere alla riva, ma furono respinti dai fucili dei carabinieri genovesi. Desistettero da ogni iniziativa, limitandosi, il giorno dopo, quando Garibaldi era già scomparso, a smantellare il Lombardo e portar via a rimorchio il Piemonte. Salutati con gioiose acclamazioni a Salemi, Garibaldi assunse qui la dittatura in nome di Vittorio Emanuele re d’Italia e bandì in tutta la Sicilia la leva dei cittadini tra i 17 ed i 50 anni. Dopo due giorni si rimise in marcia verso Calatafimi. Solo qui si videro i borbonici, quattro giorni dopo dallo sbarco. Quel che avvenne lo racconta Albero Mario, patriota, marito di Jessie White, testimone dell’impresa, nella sua biografia di Garibaldi del 1879: “Sorge Calatafimi a pie’ d’un colle , al sud del quale ve n’ha un altro , detto il Pianto dei Romani , e al sud di questo un’altro ove giace il villaggio di Vita. Tra Vita e il Pianto dei Romani avvenne il combattimento di Calatafimi, in cui fu posta la quistione di Hamlet per l’unità d’Italia.
Il generale Landi guidava 3500 soldati con 50 cavalli e 4 pezzi; ed occupava formidabile il Pianto dei Romani. Garibaldi ne
conduceva 1200 circa, computativi 250 Siciliani di Coppola e di Sant’Anna, imperocchè i 2000 delle squadre convenute a Salemi appena scoperto il nemico, prorompendo in immenso ululato, si sparsero a levante e a ponente , non inutili a ogni modo perchè mantennero in pena il Landi.
Garibaldi occupò le alture di Vita all’est della strada che svolgesi alle falde dei due colli; Carini al lato diritto, Bixio alla riscossa, i quattro pezzi al manco; i 250 Siciliani di Coppola e di Sant’ Anna, alle ali estreme. A costoro mancò il modo di menar le mani, ma ingelosendo il nemico, giovarono. Scesero i cacciatori regi accennando ad un attacco; e so stenevanli compagnie in massa. S’assisero i garibaldini dietro un ripiano per riposarvisi, e per aspettare gli assalitori. Quando, assurti di repente, incussero a quelli per qualche istante; poi, tra boccarono ad affrontarli sotto un fuoco fierissimo. Al primo cozzo non piegarono i regi; ma, reiterato, indietreggiarono ad una seconda posizione munita, di dove tempestavano i sopravvegnenti. Assetati, trafelati, ma incrollabili, procedevano i garibaldini alla espugnazione del secondo e più elevato riparo. Non frequenti tiri questi facevano con le loro armi di corta gettata e spregevoli, ma, a capo chino, muti, e fatali, scalavano il monte fidando nel baleno e nella punta della baionetta. Qui si combatte con fermissimo raggio attorno ad un obice, alla perfine strappato al nemico che risaliva il terzo riparo. Frattanto giungeva in linea Bixio con le sue quattro compagnie, sulla sinistra ; Garibaldi splende, come l’olimpio, sulla prima fronte , ed era , per i suoi , pegno di vittoria. Egli sospingeva la destra di Carini più verso il fianco sinistro de’ regi, da metterli in apprensione per la strada ad Alcamo e Palermo. E questo accenno agevolava l’espugnazione della terza, della quarta, della quinta e della sesta posizione successivamente occupate dal nemico, le cui riserve s’addensavano alla vetta ad ingrossar la battaglia. Alla settima posizione, i nostri sostarono rifiniti dal caldo, dalla sete e dalla fatica. Impossibile fare un passo di più, sparare uno schioppo, vibrare un colpo di baionetta. Garibaldi appoggiato ad un albero lasciavali pigliar fiato alquanti minuti sotto la mitraglia, e studiava il nemico. Quan d’ecco capitargli di dietro inavvertito un uomo che gli fa: Generale, temo che bisogni ritirarsi. Si rivolse egli , quasi trasognato, e vistosi a tergo il bravo dei bravi, risposegli pacato: Bixio, che dite ? qui, si fa l’unità d’Italia, o si muore. – S’accesero le guancie di questo valoroso, e ratto ei balzò alla sua schiera. Garibaldi presentatosi sul davanti della legione, così parlò: ragazzi, mi occorre un’ultima carica disperata. Vi do altri cinque minuti di riposo. Dopo i cinque minuti, egli giganteggiando squillò Alla baionetta ! La miracolosa voce del capitano risuscitò le forze spente di quegli eroi, e la disperata carica fu eseguita ; e il nemico attese, e restitui botta a botta.
Tuonavano anche due de’ nostri pezzi opportunamente postati; più a terrore che a strage del nemico, ma il furore de’ nostri sfondò da ultimo in quella mischia orrenda la linea dei regi, che sconfitti si ricondussero confusamente a Calatafimi; e su quel campo trionfato, Garibaldi augurò l’unione, sognata tanti secoli dai popoli italiani , in una sola famiglia.
Qual gloria! Il mattino del 16 entrò in Calatafimi, donde taciti spulezzarono i borbonici nella notte ; e il 17 proseguì per Alcamo. Calatafimi e Alcamo lo ricevettero alleluiando”.

Si puntò poi su Palermo, mentre dinanzi a lui fuggivano tremila soldati del generale Landi. Trevelyan scrisse che “l’entrata di Garibaldi in Palermo fu resa possibile unicamente dal genio dell’uomo, tanto scaltrito nell’arte dell guerra quanto prode in battaglia”. Cosa accadde? Scrive Alberto Mario: “Garibaldi, a cui riesci fatto col magisterio delle sue mosse strategiche di sviscerar Palermo di oltre 16 mila soldati adescandoli parte fra le montagne dell’ovest, parte fra quelle del centro, persuadendo al sonno confidente di vincitore d’un nemico annientato gli ottomila rimasti, divisava di penetrare in Palermo, inopinato, nottetempo. Calò con muti passi, al crepuscolo, dalle sommità di Gibilrossa, e in sull’alba, superata ad arma bianca l’avanguardia al ponte dell’Ammiraglio, ch’ei non potè sorprendere a cagione delle grida forsennate delle squadre siciliane, le quali posero il nemico in sull’avviso, assalì la barricata, dirimpetto a Porta Termini, che due pezzi proteggevano e un corpo di riserva sosteneva da Fieravecchia. Gli assalitori dovettero retrocedere. In quell’avverso minuto, un movimento aggressivo del nemico sul lato manco da Porta Nuova potea vietare l’entrata nella città, per cui il Generale profitto egregiamente delle squadre che la mitraglia aveva sparpagliate. Raccoltele e locate a dovere sulla sinistra, elleno cuoprirono le operazioni su Porta Termini. Ma indarno ei procedette ad una seconda prova. Tremendo stato di questa campagna nella quale giuocavasi tutta la fortuna in ogni combattimento! Finalmente , ricomposta la colonna ad un terzo assalto, espugnò le barricate; e alle 5.1/2 antimeridiane  ecco Garibaldi in Palermo… e Finanze, all’Arcivescovado, e aggiugni altre caserme”.

Il nemico, nel panico, si dette ad un selvaggio bombardamento: “Fin dalle otto del mattino del 27, Lanza cominciò il bombardamento dal forte e, a mezzodì, dalla flotta, che distrusse più di dugento edifici. Il solo forte di Castellamare in ventiquattro ore gettò 2600 bombe. Le truppe borboniche rinvenute dallo stupore inenarrabile di trovarsi con Garibaldi in Palermo che figuravansi ramingo come Ernani fra le roccie di Corleone, debitamente appostate gli contestavano ogni passo. Espugnò non pertanto Garibaldi, Sant Antonino, e Fieravecchia, e il Quadrivio, poi il palazzo dell’ Arcivescovado, e così poteva offendere da due lati il palazzo reale, e piantò il suo quartier generale al palazzo Pretorio. Donde in quel giorno stesso (27 maggio) invitò i Siciliani a riconoscere Vittorio Emanuele re d’Italia. In seguito prese d’assalto anche Porta Macqueda e sparti in due le forze nemiche, quelle del sud isolando da quelle del nord. Il 28, entrate in Palermo le squadre dei picciotti del La Masa determinarono la partecipazione della città alla gran battaglia, e Garibaldi tesoreggiò l’evento decisivo provvedendo ad una razionale erezione di asserragliamenti. Le truppe regie, a cagione della sorpresa e dell’invito di Garibaldi a passare sotto le bandiere d’Italia, a cagione del genio militare di lui, del valor temerario dei Mille, dell’attitudine ostile dei Palermitani, e dell’indole stessa della lotta sulle vie e con nemico insolito e diverso, principiarono a vacillare e a defezionare. Il 29 caddero in potestà di Garibaldi il palazzo delle Finanze e alcune caserme. Intanto la furia del bombardamento, onde la città sarebbe stata ridotta in una montagna di calcinacci , indusse i comandanti delle navi straniere da guerra a protestare. Lanza, più che dalle proteste, si lasciò persuadere ad un colloquio con Garibaldi dalla defezione de’ soldati. Il colloquio avvenne a bordo dell’ IIannibol, presente il con tr’ ammiraglio Mundy e i comandanti americano e francese. Garibaldi reduce al palazzo Pretorio disse al popolo: — Il nemico mi fece proposte umilianti per Palermo. Io le rifiutai. Ho interpretato il vostro sentimento , o siete contenti di ritornare schiavi del Borbone ? — Queste parole elettriche, così abilmente gettate in mezzo alla folla che mareggiava sulla piazza, suscitarono fino al parossismo tutti gli affetti patriottici e virili dei Palermitani, i quali i risposero con un grido di guerra tremendo che Lanza udi dal suo castello, e si riversarono armati sulle barricate. A Garibaldi tardava di sciogliere la questione di Palermo prima che Bosco ritornasse da Corleone. Era il 29. La sospensione d’armi continuava; e il di appresso, i consoli e i comandanti di mare ottennero una tregua di 12 ore , indi prolungata fino al mezzogiorno del 3 giugno. L’armistizio abilitava Garibaldi di percuotere Bosco, reduce a marcie forzate , con tutta la sua possa, e consentivagli la città , e il regio banco. Frattanto i volontari riposavano, ed egli si agguerri contro Bosco, il quale ricomparve il 1. ° giugno con 10 mila uomini, e, sostenuto un combattimento accanito, s’ adattò da ultimo a riconoscere l’armistizio. L’armistizio si protrasse tacitamente , ed il 6 giugno dal rifugio di Sambuca discese in Palermo anche l’Orsini . In quell’ istesso giorno, Lanza stipulò con Garibaldi lo sgombero totale dalla città e l’imbarco delle truppe regie con armi e bagaglie; la con segna dei forti e lo scambio in totalità dei prigionieri. Se ne andarono 20 mila uomini! Palermo fu libera”.

Scrisse Victor Hugo di Garibaldi: “Ha egli un’armata? No; un pugno di volontari. Munizioni da guerra? Niente. Polvere? Pochi barili soltanto. Cannoni? Quelli del nemico. Ma qual è, dunque, la sua forza? Che cosa è che lo fa vincere? Che cosa ha egli con sè? L’anima dei popoli. Egli va, egli corre; il suo cammino è tutto una striscia di fuoco! Con un pugno di uomini annienta reggimenti; le sue armi sono deboli; ma sono incantate; le palle delle sue carabine stanno a pari con quelle dei cannoni. Con lui sta la Rivoluzione e, di quando in quando, nel fitto della battaglia, nel fumo, nel baleno, come se fosse un eroe di Omero, vedesi apparire dietro di lui la Dea! Per quanto la resistenza appaia ostinata, pure questa guerra fa meravigliare per la sua semplicità. E’ un uomo che assale un trono; il suo sciame di legionari gli vola intorno; le donne gli gettano fiori, gli uomini si battono cantando, l’armata regia fugge! Tutto questo è epico; è un fatto luminoso, formidabile…”. Un giudizio esaltante e doveva ancora arrivare la gloriosa giornata di Milazzo.

 

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: A. Pratta, Garibaldi; A. Scirocco, Giuseppe Garibaldi;  Alberto Mario, Garibaldi

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