Il flagello del Tevere

Nella Roma del Cinquecento il Tevere rappresentò una costante minaccia. L’immagine romantica del fiume placido lasciava il posto a quello dei violentei straripamenti delle stagioni delle piogge.

Le sponde del fiume eran troppo basse e talune contrade si trovavano addirittura ad un livello inferiore a d esse. Poi il letto del fiume non veniva dragato nè le golene laterali regolate. A monte del fiume, al confine umbro, specialmente presso il Velino, continui lavori dei comuni finivano con l’esasperare il corso delle acque nel cuore del Lazio.

Sotto Paolo III, l’ingengere Francesco Oliva propose di ampliare la foce del fiume, ma non se ne fece nulla. Anche l’architetto Nanni di Baccio Bigio prospettò la necessità di uno scandaglio dell’area di Fiumicino per ridurre la foce tiberina con palificate in modo che le barche potessero entrare a vela senza piloti. Ma ancora una volta non si fece nulla. Più noti sono i progetti di Sisto V di aprire nuovi canali per favorire il deflusso del Tevere, ma tutto restò solo sulla carta.

Il fiume straripò nel 1513, nel 1530, nel 1547, nel 1557, nel 1571, nel 1589 e nel 1598, lasciando distruzione e rovine. Quella dell’8 ottobre 1530 causò incredibili disastri. Il livello delle acque salì al Porto di Ripetta a trenta palmi, quindi a Castel Sant’Angelo e tutta Roma diventò navigabile come Venezia.

Danni più gravi recò la piena del 1557. Il livello delle acque, quel 15 settembre, raggiunse i ternta palmi. Nei prati di Castello molte case vennero trasportate dalla corrente. I flutti invasero Piazza San Pietro e l’acqua conquistò Castel Sant’Angelo. Il ponte di Santa Maria fu quasi asportato, nove dei mulini galleggianti sul Tevere andarono distrutti, chiese e conventi finirono in rovine, i magazzini dell’annona furono devastati e immense provviste di grano e olio andarono perdute. Tutte le contrade si riempirono di melma. A valle della città il corso del fiume cambio letto, allontanandosi da Ostia di oltre un chilometro.

La più catastrofica fu quella del 24 dicembre 1598. Il livello delle acque salì di quasi trentatré palmi. Si sgretolarono case e chiese, millequattrocento furono le vittime, quattromila secondo le stime più negative. Si ritrovarono qui e lì cadaveri galleggianti, usciti dalle tombe delle chiese innondate d’acqua. Il famoso ponte di Santa Maria rovinò tutto e ne rimase l’arco chiamato oggi Ponte Rotto. Andarono perse merci e vettovaglie e Clemente VIII dovette erogare ampi sussidi alla popolazione per prevenire la carestia. Si calcolarono i danni in due milioni di scudi d’oro, senza contare quanto occorse per riparare il grande patrimonio di chiese della città.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: P. Pecchiai, Roma nel Cinquecento

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