La Battaglia di Marignano

Giovane e desideroso di gloria, col sostegno della nobiltà francese, Francesco I aveva impugnato i diritti ereditati su Milano attraverso la sua bisnonna Valentina Visconti ed aveva ripreso l’iniziativa di Carlo VIII e Luigi XII suoi predecessori, ritornando in Italia. Valicò le Alpi nell’agosto del 1515 e, con grande velocità, fu in Lombardia. A Villafranca, Bayard sorprese Prospero Colonna, braccio destro del duca Massimiliano Sforza, all’ora di pranzo e lo catturò. Ciò indusse i mercenari svizzeri al servizio del duca a riparare a Milano ed una parte di essi a ritirarsi dal conflitto con un accordo. I francesi disposero il loro accampamento a Marignano ed è qui che, in una memorabile battaglia, si scontrarono coi mercenari svizzeri di Markus Roist e Osvaldo Zurlauben, rimasti al servizio dello Sforza. Era il 13 settembre 1515.

Francesco I era nella sua tenda quando gli esploratori riferirono l’arrivo degli svizzeri. L’esercito francese entrò rapidamente in azione, formandosi in tre divisioni: l’avanguardia, posta leggermente in avanti e sulla destra sotto Carlo III, connestabile di Borbone, il corpo centrale comandato dal rec e, sulla sinistra, più arretrato, Carlo di Valois, duca d’Alencon. Ciascuno disponeva di fanteria, cavalleria e artiglieria. Gli svizzeri, in quarantacinquemila, con nel mezzo i cantoni della Svizzera centrale, a destra Zurigo, a sinistra Lucerna e Basilea, marciarono compatti sul nemico come una fitta massa di picche. Provò a respingerli Carlo III. Il re, col Bayard al seguito, venne subito in suo aiuto con 4000 cavalieri, mentre i lanzichenecchi al suo servizio si tenevano ben saldi al centro. Ne scaturì una orribile mischia che non si spense al tramonto. Durò altre quattro ore al chiarore della luna. Il cavallo di Francesco I fu ferito con due colpi di picche e nell’armatura del re si vedevano grandi fori in diversi punti. Nessuno però suonò la ritirata, ciascuno rimase al suo posto e la battaglia si spense per stanchezza quando la luna scomparve inghiottita dalle nuvole. Sfinito, il re finì a dormire sulla terra nuda, tenendo per cuscino l’affusto di un cannone. Non appena spuntò l’alba, lo scontro riprese.

Tutti gli sforzi degli svizzeri per impadronirsi dell’artiglieria francese si rivelarono inutili ed essi finirono investiti dal fuoco di Jacques Ricard de Genouillac, gran maestro dell’artiglieria, poi intervenne la cavalleria francese. Dopo quattro ore, gli svizzeri si divisero in due corpi, uno dei quali, con una grande deviazione, riuscì ad attaccare i francesi alle spalle. Lungi dall’essere sorpreso, il duca di Alencon, che si trovava lì, seppe disporre una carica che travolse il nemico. Sopraggiunsero finalmente i veneziani di Bartolomeo d’Alviano, allora alleati della Francia, accampati a Lodi, e, al grido di “San Marco!“, schiacciarono il copro principale degli svizzeri. Roist, il loro comandante, provò a porre riparo a quella che sembrò subito una disfatta, ma si ritrovò obbligato, al fine di salvare i resti del suo esercito e la reputazione militare dei suoi compatrioti, a suonare la ritirata. Lasciò quindicimila dei suoi senza vita sul campo di battaglia e riprese con il resto del suo esercito la strada per Milano, mentre d’Alviano, sulle tracce dei vinti, riuscì ad ingaggiare diversi scontri con alcuni gruppi di essi. Due compagnie svizzere, trincerate in un villaggio, preferirono perire nelle fiamme piuttosto che arrendersi.

All’inizio dell’anno, la dieta svizzera aveva concesso a ciascun capitano una sua autonomia di comando. Indubbiamente ciò contribuì alla sconfitta di Marignano perchè sul campo si trovarono due capitani, entrambi eletti come comandanti in capo, oltre ai capitani delle singole compagnie, nonché un rappresentante eletto dagli uomini d’armi di ciascun cantone. Questa struttura di comando fu completamente inefficace e si tradusse in una pluralità di visioni e obbiettivi, ma soprattutto in mancanza di disciplina.

La vittoria costò ai francesi tremila morti, tra essi anche Louis de la Trémoille, trafitto da sessantadue colpi, e seimila feriti. Francesco I combattè come un vero soldato piuttosto che come re. Il suo corpo fu segnato da grandi lividi, le sue braccia furono intaccate in numerosi punti; anche il connestabile di Borbone si dette corpo ed anima nella lotta: suo fratello, il duca di Chatellerault, fu ucciso, egli stesso finì accerchiato dai nemici e si salvò solo grazi all’intervento di dieci suoi cavalieri. Il Duca di Guisa ricevette ventidue ferite mentre combatteva a capo dei lanzichenecchi e finì a terra, sopraffatto dal peso dei cadaveri che gli finirono addosso. Il suo scudiero, Adam Nuremberg, lo protesse con il suo corpo dando la vita, ma fu necessario sollevare un mucchio di morti per liberarlo dopo la battaglia. Francesco I seppellì i caduti, poi volle decorare i più coraggiosi di essi con l’ordine dei cavalieri. Tuttavia, il primo articolo delle costituzioni di questo ordine affermava che solo un cavaliere potesse a sua volta conferire onorificenze; il re non lo era ancora e decise di diventarlo facendosi inziare dal più valoroso dei suoi uomini Pierre Terrail de Bayard, che quel giorno aveva soccorso chi era in difficoltà rischiando più volte la vita. Il Bayard provò una immensa gioia e con grande emozione pose la spada sulla spalla sinistra del re. Era un rituale caduto in disuso ma che piaceva molto a questi giovani aristocratici immersi nella memoria romantica dei loro antenati, della cavalleria medievale e della chanson de geste.

La Battaglia di Marignano ebbe sulle corti italiane un impatto fu sconcertante e il papa, in tutta fretta, riconobbe Francesco I duca legittimo di Milano. Di lì a poco anche i cantoni svizzeri avrebbero concluso una pace con la Francia. Dieci anni dopo, la situazione cambiò completamente e con la sconfitta di Pavia, i francesi dovettero rinunciare definitivamente a Milano ed all’Italia.

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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