La lettera nell’Antichità

L’antichità greca, romana e cristiana ci ha lasciato un gran numero di lettere, circa quindicimila.

“La lettera, quale vivido riflesso di un’anima, è proprio significativa per Roma, non altrimenti che l’autobiografia, un genere affine, il quale anch’esso vuol essere imbevuto del calore d’una essenza individuale, ed è dell’uomo che ama chiudersi nel silenzio a meditare e a ragionare con la propria umanità o in segreto o nella confidenza di pochi a parlare di sé e con sé”, riflette il Funaioli. In Grecia la lettera aveva racchiuso prevalentemente un contenuto politico o filosofico e assunse un carattere di confidenza solo nell’età ellenistica. A Roma, dove alla vita intima fu dato maggior valore che non nel Peloponneso, l’epistola confidenziale trovò fertile terreno e ben presto si ebbero raccolte di lettere, quali quelle di Catone il Censore e di Cornelia, la madre dei Gracchi. Verranno poi le lettere filosofiche di Seneca, quelle scientifiche di Plinio il Giovane, la pedanteria di retore delle lettere di Frontone, quelle soffocate dal rimpianto per una grandezza che volge al tramonto di Simmaco.

I romani, nello scrivere una lettera, si riportavano col pensiero al momento in cui la lettera sarebbe stata ricevuta dal destinatario, cosicché, invece del presente, usavano il perfetto o l’imperfetto, secondo che l’azione fosse momentanea o duratura e, invece del perfetto, il più che perfetto, invece del futuro semplice il participio futuro attivo e l’imprfetto del verbo sum. La lettera cominciava col nome del mittente seguito da quello del destinatario e da una formula di saluto, come salutem dicit, corrispondente esattamente al nostro modo d’incominciare “Caro…”. Talvola, prima del testo della lettera, si trova una formula siglata S.V.B.E.V. ovvero Si vales benest ego valeo, o altra simile. Alla fine della lettera si inseriva una formula di congedo: Vale o Cura ut valeas, e la data.

Per lo più sono lettere private, tramandate su papiri, di dimensioni ridotte, con un minimo di diciotto parole ed un massimo di duecentonove. Le lettere di Cicerone, quelle di Seneca e quelle di Paolo sono molto più lunghe.

C’è da dire che il concetto di lettera è quello di epistolae, ovvero esclude i codicilli, i messaggi scritti su tavolette. Il papiro, poi, era uno strumento raro e caro, ma soprattutto di difficile uso. L’inchiostro e la penna non permettevano una scrittura veloce e senza intoppi e così si preferiva spesso scrivere in scrittura onciale, lettera per lettera, mentre sulle tavolette si ricorreva facilmente al corsivo. Tutta questa fatica spingeva i più ricchi a servirsi di uno schiavo o meglio di un calligrafo di professione. Sappiamo con esattezza che sotto Diocleziano un calligrafo percepiva per cento righe lo stesso salario di un operaio agricolo per un giorno di lavoro.

Una lettera di Cicerone a Quinto (3,1) fu scritta almeno da tre persone diverse. Le lettere del senatore sono “l’unico vero diario di confessioni che noi possediamo dell’antichità, prima di M. Aurelio e di S. Agostino” (G. Funaioli, L’epistola in Grecia e in Roma). Sappiamo che l’inizio fu redatto da un librarius innominato, i paragrafi 17 e 18 da Cicerone stesso, i quattro seguenti da Tirone tramite il syllabatim dictare, e poi da un’altra mano. Tuttavia nelle lettere private, spesso la redazione per intero era affidata al segretario o ad un amico, un’unica persona dunque. Ciò vuol dire che la lettera antica rispecchia solo in parte lo stile del suo autore, soprattutto perchè è presumibile che Cicerone stesso non si sia servito solo della dettatura, ma soprattutto di amici capaci di rielaborare il suo pensiero in forma epistolare. Lo conferma egli stesso quando dice ad Attico: “se c’è qualcuno al quale sarebbe necessario scrivere a mio nome, desidererei che tu scrivessi e gli facessi avere la lettera”.

Le lettere cristiane, pensiamo a quelle di Paolo, furono verosimilmente non autografe.

Nella lettera ai Romani lo scrivano aggiunge infatti anche i suoi saluti, dopo quelli di Paolo. La maggior parte dei commentatori ritiene pure che Paolo, della lettera ai Galati, cominci a scrivere di suoi pugno solo verso la fine. Paolo dettava, ma non syllabatim, dettava a segretari che ritenevano interi periodi e li rielaboravano a distanza di tempo. Esattamente come Cicerone. Forse Paolo si servi di cristiani colti ed a lui affezionati.

Il modello di lettera antica ci è comunque fornito proprio da quelle del Nuovo Testamento. C’è un saluto iniziale, costituito dal nome del mittente in nominativo, la intitulatio, e seguito da quello del destinatario in dativo, la adscriptio. Pure la formula di chiusura è standardizzata in un saluto finale, la subscriptio, sugello d’autenticià costituito nel latino “vale”. Restano però gli interrogativi in merito all’indirizzo, probabilmente doveva essere breve e collocato all’esterno di un involucro perso.

 

Autore: Angelo D’Ambra
Fonte foto: dalla rete
Bibliografia: G. Scarpat, La lettera nell’Antichità

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