La letteratura russa sotto attacco. Conversazione con Alberto Fazolo

Alberto, grazie per avere accettato nuovamente di farti intervistare. Oggi vorremmo parlare di come la letteratura russa sia finita al centro di polemiche e attacchi ideologici, cercando di interrogarci sull’uso politico della cultura e della storia. In Ucraina, il 7 aprile del 2022 a Mukachevo, nella Transcarpazia, sono stati rimossi un busto di Pushkin e una targa che lo commemorava, sino ad allora posta vicino a una scuola. Conosci questi episodi o altri fatti simili? Qual è la tua opinione in merito?

Purtroppo i casi del genere non si contano più e vanno inseriti in un contesto di rimozione culturale che si è andato definendo da subito dopo la dissoluzione dell’URSS. All’epoca si avviò un processo di “decomunistizzazione” del Paese che passò anche  attraverso  la follia iconoclasta che portò all’abbattimento di importanti monumenti di epoca sovietica. Quello fu l’aspetto più evidente di un processo che passava anche attraverso la revisione della toponomastica, dell’apparato burocratico, ma soprattutto della storia e della letteratura. Ad onor di cronaca, ciò non fu un caso inedito in quelle terre, pochi decenni prima c’era stato il processo di “destalinizzazione” che per certi versi era analogo.

Da dopo il Colpo di Stato del 2014 in Ucraina si è avviato invece un processo di “derussizzazione” -i cittadini di etnia russa nel Paese all’epoca erano circa il 20% del totale- che ha provato a cancellare la cultura e la lingua russa, nonché a limitare i diritti dei cittadini di etnia russa (come d’altronde succede anche in altri paesi ex-sovietici). Questo è stato uno dei motivi scatenanti della guerra che insanguina quelle terre, portando alla secessione di alcune regioni del sud-est del Paese. Otto anni più tardi -nel 2022- la Russia è intervenuta nel conflitto ucraino alzando il livello dello scontro ed estendendolo. A quel punto la “derussizzazione” è divenuta un perfetto collante ideologico per tenere unito un Paese che andava incontro ad un processo di “balcanizzazione”. Il Governo ucraino ha intenzionalmente soffiato sul fuoco dell’odio etnico e lo ha fatto soprattutto in regioni in cui sono presenti pulsioni indipendentiste, come ad esempio proprio la Transcarpazia dove esiste un forte movimento filo-ungherese. Instillando odio etnico si sono legittimate e favorite le peggiori atrocità contro gli uomini e di riflesso anche contro la cultura. Puškin è considerato il padre della lingua russa, per questo è divenuto uno degli obiettivi della campagna d’odio in quanto incarna una contraddizione in seno al Governo ucraino: non si può contemporaneamente voler mettere al bando la lingua russa e tenere in piedi i monumenti al padre della lingua russa.

 

A maggio dell’anno scorso, invece, è partita una petizione per intitolare a Stephen King una strada ucraina dedicata sempre a Pushkin. Senza voler abbassare il livello della discussione mescolando opere diverse che non possono essere messe su uno stesso piano, ti sembra possibile pensare di sostituire I racconti di Belkin con It?

Episodi del genere sono frequenti, sono gesti di provocazione che puntano ad una damnatio memoriae di tutto ciò che non è compatibile con il nuovo corso ucraino. Bisogna però soffermare la propria attenzione sul fatto che un paragone tanto assurdo per molti ucraini non è visto come tale, discorso che si potrebbe estendere a tutti i paesi di oltre cortina. Dagli anni ‘90 del secolo scorso con la dissoluzione delle entità statali si è assistito ad un processo di imbarbarimento della società favorito dalla “televisione spazzatura”: il danno culturale e sociale è mostruoso e ci vorranno decenni per recuperarlo. Però in molti casi non si sta andando nella direzione giusta.

 

La Repubblica nel 2017 scriveva che «Aleksandr Puškin, anche se è nato nel 1799, è il padre della letteratura russa, un po’ come Dante Alighieri per la letteratura italiana, anche se Puškin, in Russia, è di più, del tanto che è Dante in Italia». Ritieni quindi che sia per questo che i nazionalisti ucraini lo odiano? In questa rimozione della storia potrebbe avere un peso anche il fatto che Puškin aveva anche origini africane (un bisnonno proveniente dall’attuale Camerun)?

Le origini di Puškin non sono un mistero lui stesso ne parla nella suo romanzo incompiuto “Il negro di Pietro il Grande”, in cui sicuramente si lascia andare a fantasie ed enfatizzazioni.

Nel clima di diffuso odio etnico che avvelena l’Ucraina ovviamente trovano spazio anche pulsioni razziste contro le persone di colore. Al netto di quanto già detto, il fatto che  Puškin fosse mulatto è un qualcosa che alimenta l’odio “ad personam”e che travalica altre questioni.

Ad ogni modo, l’odio verso Puškin è motivato anche da fattori di carattere storico, un terreno scivoloso in cui bisogna muoversi con la debita accortezza. La ricerca non ha ancora consentito di stabilire in modo certo e condiviso se sia nata prima la civiltà russa o quella ucraina. Di sicuro quella russa nasce a Kiev verso la fine del IX secolo con la “Rus di Kiev” e poi si espanse prevalentemente verso il settentrione e l’oriente. Di quella ucraina si sa meno, anche se qualcuno sostiene che la “Rus di Kiev” fosse una entità ucraina. Si dibatte quindi sul fatto se sia nata prima la civiltà russa e quella ucraina ne sia una filiazione, o viceversa. Sia come sia (i giudizi spesso sono influenzati dalla politica), Puškin non è solo il padre della lingua russa, ma una pietra miliare nel percorso di costruzione della civiltà russa che parte nella “Rus di Kiev” e arriva ad oggi: Puškin rappresenta un elemento di giunzione e continuità nel coerente processo di definizione dell’identità russa.

Proprio per questo motivo Puškin è così odiato da certi nazionalisti ucraini, in quanto elemento fondamentale nel percorso di definizione della cultura russa che a ritroso arriva fino alla “Rus di Kiev”. Ciò determina nei nazionalisti ucraini un profondo senso di frustrazione, si sentono scippati della “Rus di Kiev” e soprattutto non accettano di essere considerati una filiazione della civiltà russa, soprattutto perché ciò genera un cortocircuito nelle loro campagne di odio etnico e russofobico.

 

Anche se i media italiani non ne hanno parlato, ci giunge notizia che a Kiev i libri in lingua russa vengano raccolti per essere distrutti. Si vuole impedire di leggere Racconti di un pellegrino russo? Quali opere stanno venendo colpite e cosa sta succedendo?

Bisogna distinguere tra due fattispecie tra loro collegate. La prima è l’azione delle forze naziste e neo-naziste ucraine attuata contro le sedi comuniste e le biblioteche, ciò avvenne prevalentemente nell’anno 2014: le assaltavano per dare alle fiamme i testi marxisti. In sostanza i nazisti ucraini ripetevano gli Bücherverbrennungen, i roghi di libri fatti in Germania negli anni trenta del secolo scorso. La seconda fattispecie è la concretizzazione dell’opera di “derussizzazione”, di cancellazione della cultura russa e del tentativo di vietarne la lingua. In modo meno scenografico si fa la stessa cosa: i libri vengono rimossi dalle biblioteche pubbliche e mandati al macero. Sono tuttavia impressionanti le immagini dei camion colmi di libri che vanno verso la distruzione. Giova segnalare che ovviamente questa barbarie non coinvolge tutto il popolo ucraino e si assiste ad atti di disobbedienza e resistenza, con bibliotecari e semplici cittadini che cercano di mettere in salvo i testi più importanti.

Detto ciò, va segnalato che vengono distrutti anche molti testi in lingua ucraina e non quelli marxisti (sostanzialmente sterminati nel 2014), ma i classici della letteratura e delle scienze. Questa cosa che a prima vista può apparire inspiegabile, ha motivi storici. L’Ucraina come Stato esiste solo da dopo la Rivoluzione Bolscevica, prima era semplicemente parte dei territori dell’Impero Russo. Quelle aree all’epoca erano chiamate “Malarossia” cioè, “Piccola Russia”, ça va sans dire che i nazionalisti ucraini rifiutano questo nome e cercano di rimuoverlo da ogni dove. Tuttavia, distruggendo i libri (anche in ucraino) che parlano di Malarossia, gli ucraini distruggono esattamente il proprio patrimonio culturale che professano di voler difendere. Un qualcosa di tanto grave quanto grottesco.

 

Se volessimo essere “cattivi”, potremmo notare che anche dopo diversi sanguinari attentati terroristici compiuti da musulmani in Europa nessuno ha proposto seriamente di bandire le culture islamiche, né di vietare la vendita del Corano, anzi, si è diffuso il desiderio di capire di più ed è aumentata la vendita di saggi inerenti a questo argomento. Se invece volessimo “buttarla sul ridere” potremmo osservare che nei centri sociali italiani vi è una discreta concentrazione di anti-atlantisti, eppure vi si tengono regolarmente concerti di musica rock. Invece, anche in ambito accademico, sembra normale inveire contro Dostoevskij, che è morto nel 1881. Perché l’imparzialità nell’apprezzare elementi provenienti da una determinata cultura è improvvisamente scomparsa?

Siamo in guerra. Piaccia o non piaccia è così. Siamo in guerra sia perché sosteniamo attivamente una parte del conflitto anche inviando armi (e ad ogni buon conto, pure qualcosa in più), sia perché siamo entrati in una logica di guerra. Serve “stringersi a coorte” e per farlo si ricorre alla propaganda di guerra e alla “creazione di un nemico”. Nel nostro paese si attinge alla mai morta russofobia con la quale compattare e galvanizzare le masse per rendere accettabili i costi della guerra (al momento quasi solo economici). I deliri a cui assistiamo sono la logica conseguenza di questa operazione, i più passivamente si lasciano invischiare, qualcuno però conserva un pensiero critico. Questi ultimi per il Sistema sono molto pericolosi, talmente tanto che non conviene reprimerli e perseguitarli palesemente, conviene metterli in condizione di incertezza ed emarginazione. Condizione da cui si può uscire soltanto facendo autodafé, cioè allineandosi alle aberrazioni del potere. Oggi l’inquisizione non manda più al rogo, ma può far perdere una borsa di studio o una cattedra. Non tutti hanno la forza di resistere.

 

Da diversi decenni nelle università italiane e nei dibattiti culturali si studia l’invenzione delle tradizioni e si denunciano i casi di utilizzo politico della storia. Perché davanti alle invenzioni storico-culturali dei nazionalisti ucraini si rimane in silenzio? Quello di nazione ucraina è un concetto recente.

L’Ucraina come Stato indipendente esiste dal 1991, mentre come Stato autonomo dal 1917, anno in cui dai bolscevichi venne fondata la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Al momento del collasso dell’URSS ci si ritrovò nell’impellenza di creare lo Stato ucraino, cioè d’inventare la tradizione: compito assai difficile in quanto si doveva rinnegare l’URSS ma, tolto quel periodo l’Ucraina non era mai esistita come Stato. Si dovette pertanto attingere allo scomodo passato che era stato rimosso nell’era sovietica, quello del nazionalismo ucraino, in particolar modo a quello di Symon Petljura e poi a quello ancora peggiore di Stepan Bandera.

Subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre in tutti i territori di quello che fu l’Impero Russo scoppiò il caos e la guerra civile. In quei frenetici momenti delle forze di stampo nazionalista guidate da Symon Petljura con l’aiuto di paesi occidentali si organizzarono in un vero e proprio esercito che per alcuni mesi riuscì a controllare alcuni territori dell’attuale Ucraina: fu così che dichiarò la costituzione di un proprio Stato riconosciuto da alcuni paesi. Il riconoscimento era chiaramente un gesto politico di condanna verso i bolscevichi, dato che questo sedicente Stato ucraino non aveva il controllo stabile del territorio. L’attuale simbologia ucraina (la bandiera, lo stemma, lo slogan, ecc) è presa proprio da quel periodo e quindi fu il riferimento per la creazione dello Stato ucraino attuale. Il problema però non è tanto sulle idee politiche di Petljura, quanto sulla sua condotta: fu un feroce criminale responsabile dei Pogrom contro gli ebrei e altre minoranze.

Ben peggiore la figura di Stepan Bandera, collaborazionista nazista che per conto di Adolf Hitler istituì uno Stato fantoccio nei territori ucraini occupati nel 1941 con l’Operazione Barbarossa. Si tenga presente che il rapporto tra Hitler e Bandera non fu facile, tanto che quest’ultimo venne fatto arrestare dal Fuhrer, salvo poi essere scarcerato prima della fine della guerra. Bandera fu responsabile di alcuni tra i peggiori eccidi della Seconda Guerra Mondiale, sterminò: polacchi, ebrei, comunisti, zingari e tanti altri dissidenti o minoranze. Oggi Bandera è eroe nazionale ucraino, il suo compleanno è festa nazionale, a lui sono dedicate alcune delle più importanti strade in tutta l’Ucraina, gli sono stati eretti numerosi monumenti, ecc.

In definitiva, è come se l’attuale Ucraina avesse due padri, ma entrambi furono feroci criminali. L’Ucraina ha dunque un fondamento ideologico e culturale aberrante, retaggio avvelenato della fretta con cui nel 1991 si volle costruire uno Stato indipendente contro la volontà popolare: al referendum per lo scioglimento dell’URSS il popolo espresse il suo dissenso, ma corrotti dirigenti imposero un corso diverso degli eventi.

Pertanto, il silenzio dell’Occidente di fronte al nazionalismo ucraino non è solo dovuto a calcoli geopolitici, bensì serve a coprire la responsabilità di aver costruito uno Stato che recupera, riabilita e pone a proprio fondamento l’odio etnico e politico.

 

Nelle nuove conferenze che hai in programma stai presentando la più recente edizione del romanzo di Nikolaj Ostrovskij Come fu temprato l’acciaio (1934), quella di Edizioni Rapporti Sociali 2022, e lo definisci: «uno dei libri più odiati dai nazionalisti ucraini». Sicuramente è una scelta in controtendenza, considerando che anche in Italia c’è chi ha cercato di boicottare ogni prodotto della cultura russa. Parlaci di questo libro!

Partiamo dal fatto che anche dei monumenti ad Ostrovskij sono stati abbattuti, le vie e i luoghi a lui dedicati sono stati spesso rinominati. Pure lui è finito all’indice della nuova inquisizione ucraina.

Io sono contrario a ragionare in termini di vendite, ma ci tengo a sottolineare che si tratta di uno dei libri più diffusi al mondo. Quello di Ostrovskij è uno dei più famosi classici della letteratura rivoluzionaria, particolarmente adatto anche ai ragazzi. Ciò non tanto perché si tratta dell’autobiografia (romanzata) di un giovane membro della prima generazione del Komsomol, l’organizzazione giovanile del Partito Comunista, quanto per il fatto che il lettore viene preso per mano attraverso gli avvenimenti che vanno dalla Rivoluzione d’Ottobre al consolidamento del Potere Sovietico. In particolar modo la narrazione è ambientata in Ucraina, i racconti relativi alla Guerra Civile in questi giorni possono essere riletti in una rinnovata luce: più che un libro con quasi un secolo sulle spalle, sembra di leggere un giornale. Le fazioni e le dinamiche dello scontro di allora sono le stesse di oggi. Io credo che il libro possa essere utilizzato per trovare una via verso la pace. Non fosse per altro, è già un valido motivo per leggerlo.

 

 

 

 

Autore intervista: Riccardo Pasqualin

In copertina immagine tratta da “Come fu temprato l’acciaio” di Nikolaj Ostrovskij, Edizioni Rapporti Sociali

Riccardo Pasqualin

Riccardo Pasqualin, insegnante di materie umanistiche, si dedica allo studio della Storia Veneta e del legittimismo. Tra i suoi testi si può ricordare “Il paesaggio rurale storico nel Comune di Candiana” (2020).

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