L’assassinio del Duca di Parma

Domenica 26 marzo 1854, alle cinque e trenta del pomeriggio, il Duca di Parma, Carlo III di Borbone, affiancato dal conte Bacinetti, luogotenente d’artiglieria, si avviava a piedi al suo palazzo, reduce da una tranquilla passeggiata. In un angolo di Strada Santa Lucia, ebbe però una colluttazione con un uomo, restando in un istante colpito da una lama nel basso ventre. Mentre l’attentatore riusciva a sfuggire, il duca fu condotto nella reggia tutto in sangue. La lama del pugnale era penetrata a fondo ed ormai non c’era nulla da fare. Dopo ventitre ore di emorragia ed atroci dolori, il duca spirò.
Di regicidi la storia è piena. Alcuni maturarono in un clima di scontro religioso, come quelli di Guglielmo d’Orange, di Enrico III ed Enrico IV di Francia, ed altri furono dettati da ragioni politico-sociali, come quello dello zar Alessandro II e quello di Umberto I. Non pochi furono, poi, quelli concertati a corte, tra gelosie ed intrighi, pensiamo all’omicidio di Gustavo III di Svezia, e tra questo genere di regicidi molti furono quelli clamorosamente istigati dalle regine, è il caso dell’omicidio di Andrea d’Ungheria, marito di Giovanna d’Angiò, regina di Napoli. ll truce delitto di Parma in quale fattispecie di regicidio può inserirsi? Fu dettato da ragioni religiose? Fu il frutto di un conflitto politico-ideologico? Fu voluto da qualcuno all’interno della stessa corte ducale?

E’ difficile dirlo, ma potremmo escludere il movente religioso. Carlo III non fu che un normalissimo sovrano cattolico nell’Italia dell’Ottocento. Meglio spostare le nostre attenzioni sulla sua vita privata.

Carlo era divenuto duca nel 1849, dopo che suo padre aveva abdicato in esilio, fuggito a seguito dei moti del 1848. Lo affiancava sua moglie, sposata quattro anni prima di salire al trono, Maria Teresa di Borbone, la figlia del duca di Berry. Da queste nozze erano nate due figlie, Margherita e Alice Maria, e due figli, Roberto ed Enrico. Tuttavia tutti i cronisti e gli studiosi convengono nel sostenere che il rapporto tra marito e moglie fosse pessimo. Carlo III era giovane, bello e colto, ma anche adultero e severo, freddo con la moglie. Possiamo allora sospettare della duchessa? Fu forse lei a ordinare l’omicidio del marito detestato? Sarebbe una ipotesi turpe ma non escludiamola.

Ma chi piantò in concreto la lama nel ventre del duca di Parma? Lo sconosciuto attentatore del 26 marzo non fu arrestatto, ma la polizia doveva a tutti i costi affrettarsi a consegnare all’opinione pubblica un colpevole, pena un grave contraccolpo d’immagine e probabilmente anche una conseguente destabilizzazione politica. Del resto i gendarmi erano nel vortice delle polemiche per aver sottavolutato le scritte apparse sui muri del centro proprio quel giorno, scritte minacciose in cui si leggeva: “A morte Carlo III”. La polizia se la prese allora con un artigiano parmense, un certo Antonio Carra, di professione sellaio, schedato come anarchico e frequentatore di circoli mazziniani. Questi però si professò da subito innocente e, condotto d’innanzi ai giudici, riuscì a convincerli della propria estraneità ai fatti e ad essere scarcerato. Per starsene più tranquillo, Carra decise di emigrare e andò a vivere in Argentina, a Buenos Aires. Da qui fece però una mossa inaspettata che carica di ulteriori interrogativi questo regicidio. Carra, infatti, scrisse una lettera ai giudici parmensi in cui senza mezzi termini diceva: “Signori miei, l’ho fatta franca. Sono io ad aver ucciso il duca!”.

Possiamo prendere per buona questa confessione? A ben vedere l’atteggiamento degli anarchici della “propaganda del fatto” fu molto diverso da quello tenuto da Carra. Essi non vollero sfuggire mai alla loro condanna e rivendicarono con fierezza i loro omicidi nei tribunali, usandoli come vetrine per divulgare le loro idee. Carra ebbe un comprotamento diametralmente opposto. I fogli repubblicani, dal canto loro, chiarirono subito che il delitto non era di natura politica, ma avrebbero potuto fare forse diversamente? Inoltre, c’è da pensare che se pure Carra non sia stato l’autore del misfatto, ciò non esclude che esso sia stato compiuto da un altro anarchico. E poi, a ben guardare, quella lettera scritta da Buenos Aires qualcosa di politico e sovversivo l’aveva: l’irridere i giudici, lo sbeffeggiare le autorità, il prendersi gioco dei tribunali parmensi.
Intanto a Parma la situazione era diventata caotica e nuovo sangue era sgorgato.

Cinque giorni dopo l’assassinio, il 12 giugno, il giudice Antonio Gabbi, incaricato dell’istruzione del processo, fu ferito a morte da pugnali sconosciuti; il 22 luglio dello stesso anno scoppiò una sedizione popolare che dovette venire soppressa con la forza; l’anno dopo, nella notte dell’11 febbraio, il colonnello Paolino Lanati, presidente del tribunale di guerra, fu aggredito a colpi di pugnale; il 15 aprile dello stesso anno il conte Anviti, comandante delle truppe, fu preso a pistolettate; il 4 marzo cadde assassinato il direttore delle carceri, il conte Magawly-Cerrati all’uscita dal teatro, mentre aveva al braccio la moglie; il 17 dello stesso mese fu ferito a morte il tenente Bordi, giudice inquirente. Una tal serie di tremendi misfatti fu considerata la riprova dell’esistenza di una cospirazione. D’innanzi a ciò la duchessa reggente proclamò lo stato d’assedio ed istituì una corte militare per giudicare i colpevoli. Al generale austriaco Crenneville fu affidato il comando delle truppe e per l’ufficio d’inquirente il governo ducale fece richiesta a Vienna di mettere a sua disposizione un uditore austriaco. Queste nomine esacerbarono gli animi dei repubblicani, ma anche quelli della stampa liberale ed antiaustriaca perché resero palese il controllo austriaco sul ducato di Parma. Oltretutto, a discapito di chi vide nel duca ucciso un sovrano “austricante”, è giusto sottolineare che Carlo III mal sopportò sempre le ingerenze asburgiche e chiamava “cariatidi rimbambite” i figuri di Vienna che spadroneggiavano a Parma. C’è quindi da pensare che anche l’Austria avrebbe avuto ragioni per farlo fuori.

Il mistero si infittisce. Scarcerato Antonio Carra, finì in galera un tale Ireneo Bocchi, anch’egli presto scagionato dalla testimonianza di tre donne. Stranamente due agricoltori parmigiani, emigrati in Corsica, dichiararono di aver saputo del regicidio a Bastia, sette ore prima che avvenisse. Ventidue giorni dopo il delitto, poi, la contessa Brigida Galli Leoni di Piacenza disse di aver ascoltato da alcuni giovani di un attentato in preparazione per il giorno 20 marzo. Probabilmente gli inquirenti capirono che le trame del complotto coinvolgevano persone illustri della corte. Furono colti dal pensiero che proprio la duchessa di Parma avesse ordito il delitto assoldando qualcuno che nutrisse un diverso odio nei confronti del duca, un anarchico o mazziniano a cui poi garantire protezione. Si mormorò che un fedelissimo della Berry, il conte Ferdinando Douglas Scotti di Piacenza, avesse contattato il sicario in ambienti mazziniani… I giudici non se la sentirono di accusare la loro sovrana e non se la sentì neppure Vienna che, col plenipotenziario, il barone Lederer, serbò sempre sospetti sulla donna, ma ormai, grazie a quel delitto, era divenuta proprietaria del ducato e poteva dettarne le politiche in funzione antisabauda.

Il processo venne allora frettolosamente archiviato e tutti gli imputati furono espulsi con l’ordine di non tornare negli stati ducali.

Autore articolo: Angelo D’Ambra
Fonte foto: dalla rete
Bibliografia: E. Vittorini, La tragica vicenda di Carlo III

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