La successione al trono siciliano di Enrico VI di Svevia

Rifiutando l’antico giuramento di fidelitas dei re siciliani, Enrico VI di Svevia si poneva fuori dalle prospettive successorie delineate nel paragrafo 14 del Privilegium Beneventanum concesso nel 1156 da Guglielmo I ad Adriano IV e confermato nel 1188 da Guglielmo II. Il privilegium vincolava il papa a concedere il regnum solo a patto che gli fosse prestata la fidelitas.
Nell’investitura di Roberto il Guiscardo il termine fidelitas esprimeva una relazione che andava ben oltre il puro e semplice legame di vassallaggio. Rappresentava, infatti, una fedeltà religiosa e assieme feudale che riconosceva al pontefice una plenitudo potestatis politica, ma di natura teologica. Anche i legami con gli altri principi meridionali stabilivano certi principii. Così leggiamo nella Constitutio quae facta est inter dominum Gregorium papam septimum et Landulfum Beneventanum principem, del 1073, che “si ab hora ipsa in antea princeps ipse fuisset infidelis sanctae romanae Ecclesiae et papae” e così leggiamo nell’analogo ius iurandum prestato nello stesso anno da Riccardo di Capua: “… ab hac hora et deinceps ero fidelis sanctae romanae ecclesiae et apostolicae sedi et tibi domino meo Greogrio universali papae; omnes quoque ecclesias… dimittam in tuam potestatem; et defensor illarum ero ad fidelitatem sanctae romanae ecclesiae; regi vero Henrico… iurabo fidelitatem, salva tamen fidelitate sanctae romanae ecclesiae; hac fidelitatem observabo tuis successoribus” (P. Zerbi, Ecclesia in hoc mundo posita).

Questo rapporto di fidelitas fu scosso alla morte di Federico Barbarossa, quando suo figlio Enrico VI, succedutogli sul trono imperiale, dette inizio ad una complicata vicenda politica e legale per la successione al trono siciliano.

Consorte del venticinquenne Enrico era Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II e zia di Guglielmo II. Questi l’aveva designata a succedergli e nel 1185 aveva fatto giurare alla nobiltà del Regno di Sicilia, convocata a Troia, di riconoscere lei e il marito come futuri sovrani, qualora egli fosse deceduto senza eredi diretti.

Nel 1189 Guglielmo II lasciava la vita terrena proprio così, senza figli, come aveva temuto (non a caso era chiamato “il Buono” per la sua lungimiranza). Enrico VI pretese allora la successione, tuttavia, nonostante il giuramento di Troia, i baroni del regno si opposero. Trascorse appena tre settimane dalla morte del re, il Regno di Sicilia già vedeva l’alba di una guerra: il giuramento prestato a Costana e Guglielmo era stato infranto, i baroni avevano eletto Tancredi, conte di Lecce, figlio naturale di Ruggero II, come loro re. Grande era pure l’ostracismo del pontefice che si opponeva ad una incoronazione che avrebbe consegnato l’intera penisola agli Hohenstaufen, inglobando Roma nel ventre dell’Impero.

Enrico VI, oltretutto, non intendeva prestare in alcun modo l’antico giuramento di fidelitas dei re siciliani. Egli aveva più volte evidenziato l’incompatibilità tra lo ius imperii e la soggezione feudale alla Chiesa. Lo ius imperii rendeva vane le prerogative del papa, escludeva la fidelitatem alla Chiesa, viceversa Roma esigeva a tutti i costi quel giuramento perchè così solo avrebbe potuto piegare il riottoso imperatore e garantito il permanere della distinzione dei troni siciliano e imperiale.

Rifiutando la fidelitas, Enrico VI si poneva fuori dalle prospettive successorie delineate nel paragrafo 14 del Privilegium Beneventanum concesso nel 1156 da Guglielmo I ad Adriano IV e confermato nel 1188 da Guglielmo II. Il privilegium vincolava il papa a concedere il regnum solo a patto che gli fosse prestata la fidelitas: “Omnia vero predicta, que nobis concessistis, sicut nobis ita etiam et heredibus nostris conceditis, quos pro volontaria ordinatione nostra statuerimus, qui sicut nos vobis vestrisque successoribus et ecclesie Romane fidelitte facere et que prescripta sun voluerint observare”.

Celestino III decise allora in favore di Tancredi di Lecce. Questi intendeva prestare il giuramento di fidelitas senza problemi e ricevette, il 9 gennaio del 1190, l’incoronazione regia a Palermo. La questione non era affatto risolta. Il diritto consuetudinario normanno, infatti, conosceva un altro imprescindibile momento per la proclamazione del sovrano: la electio. Si trattava di una vera e propria elezione da parte dell’assemblea dei baroni del regno, come avvenne anche per Ruggero II. L’electio prevista c’era già stata ed era avvenuta in favore di Costanza ed Enrico ed era proprio l’ordinatio di Troia voluta da Guglielmo II.

Le pretese sveve dunque erano ben sale, fu poi la morte di Tancredi, nel 1194, ad eliminare ogni problema. Enrico VI potè impadronirsi del regno e, il 25 dicembre del 1194, cinse la corona di Sicilia. Il giorno dopo nacque Federico II.

Autore articolo: Angelo D’Ambra
Foto gentilmente concessa dal gruppo di rievocazione storica “Cives Regni Siciliae”

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