L’hybris dell’Occidente

Uno degli epiteti che diverse testate giornalistiche hanno affibbiato a Putin è quello di satrapo. Questo insolito lemma indica la figura del governatore delle provincie dell’antico impero persiano (dal persiano xšaθrapāvā ovvero “protettore della provincia”). I satrapi, nominati dal sovrano, erano solitamente appartenenti alla nobiltà. Sottoposti a controlli e ispezioni per valutare il loro operato e perché la lontananza dalla capitale non li spingesse al tradimento, in qualità di governatori, riscuotevano tasse, amministravano la giustizia ed erano responsabili della sicurezza dei loro territori. Nell’impero di Dario I c’erano ventitré satrapie che garantivano la libertà di culto, il rispetto delle tradizioni di ogni popolo e la pacifica convivenza. Quando Alessandro Magno conquistò la Persia questo sistema di amministrazione fu mantenuto e persino esteso all’India, finendo, poi, per influenzare anche la struttura di governo dell’impero romano. La parola satrapo ha assunto una connotazione intimamente negativa come risultato di un lento approdo iniziato nel corso delle guerre persiane, riflesso della costruzione propagandistica greca contro l’impero di Dario e Serse. Il titolo d’un alto dignitario, con enormi poteri, quindi esposto alla tentazione di prevaricazioni e dispotismo, ma pure vincolato ad un esercizio di lealtà profonda e incondizionata, si trasformò nel concentrato degli elementi più abietti della psicologia del potere. L’evoluzione del senso di questa parola attraversa i secoli, si ammanta di lampante razzismo e incarna il volontarismo dello scontro tra Oriente e Occidente

Nella tragedia “I Persiani”, Eschilo attribuisce ad Atossa, madre di Serse, partito alla conquista della Grecia, un sogno particolare: «Mi apparvero due donne in vesti adorne, una fasciata di pepli persiani, l’altra in doriche fogge; ed erano, per statura, assai più insigni di ogni donna vivente, e di bellezza impareggiabile, e sorelle nate dagli stessi genitori. All’una era toccato in sorte di abitare il suolo ellenico, all’altra la terra persiana. Ed ecco che fra loro, a quanto mi parve di vedere, sorse una lite, ma il figlio mio, non appena se ne accorse, cercò di trattenerle, di calmarle, e le aggiogò al proprio carro applicando le cinghie sotto il collo. E una si gonfiò d’orgoglio per questa bardatura, e offriva docile la bocca al morso; l’altra invece recalcitrava, finché lacerò con le mani i finimenti del carro, strappò via con forza il morso e spezzò a mezzo il giogo. Mio figlio cade giù dal carro e Dario, suo padre, gli si avvicina e lo compiange. Allora Serse, come lo vede, si lacera le vesti. Questa, precisamente, è la visione che ho avuto questa notte».

L’incubo ha un significato evidente: le due sorelle – Asia ed Europa sono figlie di Oceano e Teti – non possono sottostare al medesimo dominio, hanno caratteri diversi, l’orientale si mostra docile, l’occidentale ribelle. Nel “Fedro” di Platone, il mito dell’auriga che guida un carro trainato da due cavalli di diverso colore e temperamento, espresse, nel contrasto tra la reazione del cavallo nero e quella del cavallo bianco all’imposizione delle briglie, il conflitto dell’anima, continuamente divisa tra pulsioni irrazionali e tendenze spirituali. Eschilo usa la stessa immagine trasformando il cavallo ribelle in simbolo della libertà. I greci si fanno, cioè, protagonisti di un impatto tra civiltà, con le ragioni della democrazia contro un giogo tirannico.

L’episodio di Atossa continua. Ella al risveglio vede volare un’aquila, simbolo del potere imperiale, ma un falco le stacca la testa e la mangia, la donna allora chiede informazioni sugli ateniesi e il coro le risponde che difficilmente essi si faranno soggiogare. Nel frattempo arriva un messaggero per comunicare che Serse è stato battuto da Temistocle, prima a Salamina e poi sulla terra ferma. Atossa invoca Dario, il defunto marito, il quale compare a biasimare la hybris del figlio e quando svanisce, appare Serse con le vesti lacere come nel sogno. La profezia è, così, interamente compiuta.

Nella finzione eschiliana, Serse, con l’invasione, commette un delitto e per questo subisce una punizione, ovvero la sconfitta, però, l’accezione di questo crimine non è legale, ma religiosa. Il reato dell’achemenide, infatti, non è la guerra, ma l’hybris, cioè la superbia, un orgoglio così spinto e accecante da oltrepassare ogni ordine costituito. L’agire del re persiano offende non tanto il consorzio umano, ma gli dei e la dimensione divina delle cose, dal momento che le realtà geografiche, nel paganesimo greco, avevano una valenza anche sacrale. La hybris si è impadronita di Serse che non si accontenta di gestire l’impero già vastissimo che ha ereditato dal padre, ma vuole superare l’Ellesponto ovvero il peras, il confine che la stessa natura ha messo all’espansione ad occidente, facendo diventare terra la distesa di acque, grazie ad un gigantesco ponte di navi. Questa tracotanza viene punita dagli dei con la disfatta militare. I greci, dunque, chiamano in causa addirittura le divinità a difesa dei loro interessi.

A ben vedere, questa tragedia è carica di retorica. Risente della percezione che gli elleni avevano di se stessi e del mondo persiano e, quindi, è ideologica, celebra la Grecia come società democratica, avanzata, superiore, si erge a giudice dell’altro e lo dichiara unilateralmente inferiore, sanguinario, corrotto, dispotico. Così la parola satrapo iniziò il lento viaggio che l’ha condotta tra i vocaboli sinonimo di aberrazione e liberticidio.

I greci, che attribuivano alla parola una forza intrinseca e discriminante, chiamarono sprezzantemente bárbaros chiunque non parlasse greco e fu proprio nel corso delle guerre coi persiani che si autodefinirono “diversi” e “migliori”. Tanto diversi, però, non erano e tanto migliori neppure. La Grecia era una democrazia? Anche (e in un significato circoscritto), ma era pure altre cose, per esempio era ostaggio degli oratori di professione, il palcoscenico delle demegorìe, del sofismo, del paralogismo, dell’inganno e dell’arguzia dei comizianti.

È sbrigativo sostenere che Serse avesse ripreso i piani di conquista di suo padre Dario per vendicarsi della sconfitta patita a Maratona (e che Dario fosse stato mosso da pura sete espansionistica). Alla radice dell’offensiva sulla Grecia, nella prima come nella seconda guerra persiana, infatti, stavano le risolute intromissioni elleniche nel contesto anatolico, sfociate col sostegno politico, economico e militare di Atene ed Eretria alla rivolta delle città della Ionia sotto il dominio achemenide (499–493 a.C.). L’hybris chiamata in causa da Eschilo evidentemente contraddistingueva il suo mondo non meno di quanto trascinasse i persiani. Qualche anno dopo, a riprova di ciò, l’assemblea ateniese, attraverso il controllo delle risorse economiche della lega delio-attica, eresse la sua egemonia su tutta la Grecia, soffocando la libertà dei popoli amici ed esplodendo nella guerra del Peloponneso. Tucidide stesso, perfettamente consapevole di quanto la deliberata manipolazione delle informazioni nelle arguzie dialettiche influenzasse il processo decisionale, non tacque come Atene avesse esercitato una vera e propria supremazia sugli alleati (il rifiuto d’abbandonare Potidea, di restituire autonomia ad Egina, d’abolire il decreto che bloccava il commercio di Megara…), né che la guerra del Peloponneso scoppiò quando Sparta ebbe così tanta paura della nascente potenza di Atene da decidere una guerra preventiva prima che fosse troppo tardi. Lo storico, però, sostenendo acriticamente Pericle, non parla delle ingiustizie e delle repressioni esercitate dalla città – anche quella del dissenso interno -, accettando, invece, il diritto della forza, come traspare dal dialogo dei Meli. Il drammaturgo comico Aristofane e il biografo Plutarco, ad esempio, incolpano Pericle per la guerra e suggeriscono che la sua sconsiderata ricerca d’espandersi fosse progettata per offendere Sparta ed innescare una resa dei conti distruttiva. Insinuano persino che l’atteggiamento da falco di Pericle derivasse dal desiderio di distrarre dagli scandali finanziari in cui era coinvolto. Ad ogni modo Atene cadde nel 404 a.C., dopo quasi un anno di assedio, vittima non di Sparta, né dei suoi errori, ma della sua hybris.

Gli achemenidi – aggiungiamo – furono qualcosa in più che ingordi oppressori al centro di una collisione tra democrazia e dispotismo. Il loro impero era scosso da tensioni e sedizioni, ma serbò una sorprendente tolleranza verso le minoranze come entità multietnica e federativa, fu persino ostile allo schiavismo, perno, invece, delle polis elleniche. Singolarmente, personalità come quella dell’ateniese Temistocle, comandante della flotta nella battaglia di Salamina, sopraffatto dai suoi avversari politici e perseguitato nella presunta Grecia “democratica”, trovarono scampo lì, nell’impero combattuto. Gli achemenidi sarebbero stati deposti più tardi dalla famelica hybris che divorava un giovane macedone, quell’Alessandro Magno che causò alla nobile Persia saccheggi, violenze e furiose distruzioni.

Veterana di mille guerre e stagioni di odio, strisciando col sibilo ed il suono d’un sonaglio ai piedi di presunte democrazie pacifiche, l’hybris è sopravvissuta sino ai giorni nostri, rinnovandosi in volontà espansionistiche e piani interventisti supportati da un’intellettualità televisiva di influencer  e opinion makers, capace di piegare argomentazioni, personaggi ed eventi ad ogni fine, tramutando gli aggressori in aggrediti e istigando il pubblico alla belligeranza. Eppure le genti d’Oriente ed Occidente restano sorelle, diverse per mentalità ed economie, cavalle dall’indole differenti, ma necessariamente vincolate al reciproco rispetto ed alla cooperazione perché l’hybris è ineluttabilmente autodistruttiva.

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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