Pittura del Quattrocento a Ferrara

Il maggior centro d’arte pittorica in Italia nel Quattrocento fu senza dubbio Ferrara, con Venezia e Padova. La pittura ferrarese non risente di una tradizione medioevale, riflette invece lo splendore rinascimentale della corte estense, giovane ma tra le più illuminate d’Europa, cantata da Ariosto e Tasso, arricchitta dalla maestria dell’architetto Biagio Rossetti

Per comprendere la singolarità della pittura ferrarese basti citare gli artisti che la città ospitò: Pietro della Francesca e Rogier Van der Weyden. A Ferrara, Piero della Francesca lavorò nel 1449 al Castello Estense e nella Chiesa di Sant’Andrea, ma oggi non ne resta traccia. L’artista incontrò qui Rogier van der Weyden, che aveva realizzato per gli appartamenti di Lionello un’ammiratissima Deposizione, apprezzata soprattutto per l’interpretazione drammatica della composizione.

Probabilmente il primo dei grandi pittori ferraresi, Cosmè Tura, fu allievo di Mantegna a Padova. Così le sue opere risentono di un taglio mantegnesco nella prospettiva, nella durezza del rilievo, nell’uso di tanti attributi umanistici. Certi virtuosismi gotici probabilmente affermano anche l’inflsso di Weyden in un linguaggio espressivo che si fa originale e seminale a Ferrara. Lo ritroviamo nella Madonna col Bambino e santi del Museo Fesch di Ajaccio e nella Madonna col Bambino della National Gallery di Washington. Cosmè Tura fu pittore del Duca Borso, poi Ercole I fino al 1486, quando rinunciò alle sue incombenze e si ritirò in una torre della città dove visse per altri dieci anni. Dipinse le portelle dell’organo del Duomo con l’Annunciazione e San Giorgio, il Polittico Roverella per commemorare il vescovo di Ferrara Lorenzo Roverella, lavorò inoltre alle decorazioni di stanze, di studi e della Biblioteca di Giovanni Pico della Mirandola.

Francesco del Cossa ebbe vita più breve, interrotta dalla pestilenza del 1478, ma eguagliò Cosmè Tura nella bellezza delle opere, anzi, forse lo superò. L’opera più nota del tempo fu l’ampliamento del Palazzo di Schifanoia, oggi nel cuore della città, ma allora era circondato da orti, in un totale isolamento, pur essendo all’interno della cinta muraria e quindi protetto da attacchi e scorrerie. Nel 1469 era qui impegnato nelle decorazioni della sala interna che costituisce probabilmente la più alta espressione della pittura ferrarese del secolo. Vi ritroviamo dipinti i Mesi con i loro significati astrologici. Recano la sua firma Marzo e Aprile, coi Trionfi di Minerva e Venere, la Potatura, le Tessitrici, il Giardino d’Amore, le Corse al Palio, il Duca Borso che gratifica un buffone. Qui alle forme quasi cristallizzate di Cosmè Tura, Francesco del Cossa contrappose una più naturale rappresentazione umana: il tono quasi fiabesco di matrice tardo gotica si fonde con forme solide, prospettiva e colori luminosi in forme fantasiosamente visionarie.

La decorazione del Palazzo di Schifanoia fu continuata dal diciassettenne Ercole de’ Roberti, pittore prodigio le cui doti emergono nel riquadro del mese di Settembre in cui si notano le caratteristiche della sua pittura: stilizzazione geometrica, dinamismo, tendenza teatrale. Ercole de’ Roberti eseguì per gli Este anche altri lavori artistici, scenografie per ricevimenti e progetti architettonici. Per esempio, nel 1489, decorò un casotto nel giardino di Eleonora d’Aragona e il camerino del Duca Alfonso d’Este, e, l’anno dopo, diresse la costruzione e le decorazioni del letto nuziale di Isabella Ercole.

I caratteri di quella che fu definita Officina ferrarese furono in straordinaria sintonia con i valori della società cavalleresca che gli estensi guidarono. Scrive Sergio Ortolani in Cosmè Tura, Francesco Cossa e Ercole de’ Roberti: ” A differenza degli ideali estremi, eroici, stoici, repubblicani, dei grandi fiorentini, […] a Ferrara non si voleva la dissoluzione del Gotico, del suo gusto feudale, cavalieresco, ‘romanzo’ caro alle nuove signorie come al vecchio popolo comunale lombardo [-..]. Si voleva, appunto, conservare la parata ‘cortese’, la più trita e pittoresca che profonda motilità, di tempra sensuale, l’emblematica araldica e la preziosa e artificiosa artigiania ; e in esse – tradizione nordica seguita alla bizantina – il linguaggio artistico del ‘colore’. Ne ci si poteva, d’altronde, spogliare dell’intuizione nativa, d’uno spazio infinito e vibrante, di contro alla definitezza classicista e alla metrica toscana del ‘volume’. Così, finché lo aperto spazio non s’organizzava nel colore, come tono, che ne divenne la stessa forma, esso, nonostante la studiosa applicazione di Jacopo Bellini e il darsi attorno con la prospettiva del malfido impresario Francesco Squarcione, rimase il ‘luogo’ del comporre, ma non potè identificarsi con l’entità plastica del rigoroso stile toscano; e gli convenne rastremarsi nelle consunte implicazioni e allusioni marginali o trascriversi descrittivamente nella gotica grafia […]. Fu grandezza di questi uomini, anche rispetto ai maggiori del Cinquecento, quel franco ignorarsi, distratti dall’impegno d’una invenzione formale, che non credevano mai li tenesse a tu per tu con l’eterno; e tuttavia fu per essi come se lo fosse”.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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