Memorie della Grande Guerra: Bruno Miniati, un fotografo nella Grande Guerra

“Mi spedirono subito sul Carso, la zona più rognosa. Ma io ero un diavolo. Avevo una motocicletta con il sidecar, un sacco a pelo, una macchina a pellicole piane 10 per 15 e un’incoscienza unica. Forse la stagione più bella della mia vita è stata quella”. Sono le parole di Bruno Miniati che appena appena diciannovenne s’arruolò volontario nell’88° Reggimento Fanteria per fotografare la Prima Guerra Mondiale. Era livornese ed aveva già fotografato il terremoto di Messina ed il conflitto in Libia.

Nato a Livorno nel 1889, era estroso, curioso, sicuramente intraprendente e risoluto: “Quando rientravo al Comando Supremo, che era guarnito di imboscati con il coleltto duro, facevo terra nera. Un giorno, alla mensa, mi sfottono perchè ho l’uniforme in disordine e mi tirano addosso le molliche di pane. Io rispondo con i cantucci, quelli insistono e allora metto mani ai bicchieri e poi alle bottiglie spaccandogliele in testa e gridando ‘imboscati, vigliacchi, cagoni!’. Una scena da film”.

Tale temperamento, Miniati lo portò in trincea: “Il mio nome divenne famoso e le mie pellicole erano sempre le più apprezzate, perchè io, quand’ero al fronte, mi espongevo più degli altri. Il 7 novembre 1915, quando il Col di Lana fu espugnato, io ero là. E quando l’8 aprile 1916 l’estrema vetta fu minata e fatta saltare per dare il colpo definitivo agli austriaci, io ero ancora là, con la macchina puntata”.

Miniati passò alla Terza Armata del Duca d’Aosta e fu protagonista di un episodio fotograficamente importante sul Monte Ermada: “L’Hermada bloccava la nostra avanzata. Oltretutto nelle sue caverne si nascondeva un riflettore che la notte uscita allo scoperto e illuminava le nostre retrovie permettendo all’artiglieria austriaca di spezzare il flusso dei nostri rifornimenti. I danni erano notevoli. Morti, feriti, senso di impotenza e prime linee che ricevevano munizioni e rancio caldo a singhiozzo. I cannoni della Terza cercavano di far fuori quel dannato riflettore ma appena il tiro si avvicinava al bersaglio il riflettore si spegneva e tornava nella caverna…”.

Cosa fare per fermare quel disastro? Miniati escogitò un’arguzia da fotografo: “Io chiedo di andare nella trincea più avanzata. Faccio togliere un po’ di sacchetti, nella feritoria piazzo una macchina a lastre 18 per 24 ben piantata sul cavalletto, e nell’ora più limpida della giornata scatto una foto dell’Hermada. Fuori della trincea il mio aiutante Ubaldo Castellani di Empoli, con un’uniforme mimetica, regola l’obbiettivo. Poi ordino di lasciare la macchina dov’è, senza toccarla. Giunge la notte, ecco il riflettore che si accende e io riapro l’obbiettivo sulla lastra già impressionata. Così sul paesaggio dell’Hermada scattato di giorno si fissa il punto bianco del riflettore. Sviluppo, stampo e consegno la foto al comando artiglieria. La caverna del riflettore è localizzata al centimetro”.

Il risultato fu vincente: “L’indomani è uno scherzo, per i nostri artiglieri, puntare i cannoni sul punto esatto del riflettore. Appena scende la notte torna a gettare il suo fascio di luce sulle retrovie della Terza Armata, lo centrano alla prima bordata”.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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