Il Palazzo della Ragione

Nel 1172, mentre Milano ricostruiva le sue mura, Padova s’affidava all’architetto Pietro di Cozzo da Limena per l’erezione di una sala destinata alle adunanze cittadine. Cozzo sondò il terreno, ne studiò le profondità e le acque sotterranee affinché l’edificio potesse godere di certa solidità, e tali indagini durarono ben trentasette anni. Solo quando fu sicuro di sé avviò i lavori. Dopo dieci anni, nel 1219, tutto era finito ed il Palazzo della Ragione s’innalzava al centro di Padova con forme insolite.

Un edificio lungo ottantadue metri e largo ventisette, di forma romboidale, con angoli ineguali, imitava l’atteggiamento del corpo umano che prova a star ritto senza traballare. L’aspetto più interessante era rappresentato dalla disposizione delle finestre: i raggi del sole penetrano da oriente negli equinozi, da Sud quando c’erano i solstizi. I padovani fecero uso di questo edificio per quasi un secolo per tenervi i consigli municipali e amministrarvi la giustizia. Qui avveniva anche l’elezione delle più alte cariche municipali, nonché quelle delle città a Padova sottomesse. E’ il caso di Vicenza. Nel 1266 nel Palazzo della Ragione di Padova si elesse il Podestà di Vicenza secondo modalità antichissime: “Raunato il maggior Consiglio si mettevano in un’urna quaranta brevi, cioè dieci per quartiero, e quegli a cui fosse toccato il breve, diventava elettore, od un altro nominato da lui. Cotesti quaranta elettori si chiudevano nella Chiesa del Palazzo, situata nel bel mezzo della Sala della Ragione, la quale in quel dì era divisa in tre sale minori; e si accendevano una dopo l’altra due candele da due dinari, e mentre ardevano, tre cittadini buoni ed idonei con voti segreti eleggevansi, ma nessuno che fosse di quel numero: e pognam caso che non avessero eletto prima che si spegnessero le candele, erano condannati a pagare cento soldi per uno, e privati della facoltà di eleggere quella volta, succedendo in vece di essi altri quaranta elettori. I tre eletti poi erano estratti a sorte, e se il primo avesse rinunciato il carico, entrava il secondo in luogo di lui, e così il terzo in luogo del secondo. Tutta la Corte dell’eletto doveva essere formata di Cittadini Padovani, e se egli non fosse stato cavaliere addobbato, avanti di prestare il giuramento, era tenuto a ricevere il grado di cavaliere. Aveva tre mila lire di salario (il nostro ne avea quattro mille), e dava una malleveria di mille marche di argento al Comune di Padova”.

Circa un secolo dopo la sua erezione, s’avviarono importanti cambiamenti stilistici. Era il 1306 e Fra Giovanni degli Eremitani di Sant’Agostino tornò in città dopo avere pellegrinato in Asia. Fu lui a consegnare ai padovani le immagini dei templi induisti e tutti ne restarono così entusiasti da volere abbellire secondo tali stili il loro palazzo. Fra Giovanni accettò l’incarico ed iniziò a decorare l’esterno dell’edificio erigendovi un doppio ordine di logge, del piano superiore suddiviso in tre grandi ambienti fece un’unica sala, infine ideò una copertura a forma di carena di nave rovesciata. I successivi rifacimenti mantennero sempre queste modifiche.

Negli stessi anni, Giotto s’occupò d’affrescare le pareti della grande sala sulla base degli studi di Pietro d’Abano e, sebbene tutto andò distrutto con un incendio nel 1420, gli affreschi furono tutti ripristinati dal maestro padovano Nicolò Miretto. Questo ciclo pittorico è suddiviso in 333 riquadri, si svolge su tre fasce sovrapposte, ed è uno dei rarissimi cicli astrologici medievali giunti fino ai nostri giorni: di mese in mese, i raggi proseguivano passando per le finestre in modo da fissarsi sui segni dello zodiaco delineati sulle pareti interne. Poteva finire tutto perduto, come si è detto, ma i padovani recuperarono gli studi di Pietro d’Abano, nonostante questi fosse stato condannato per sacrilegio dall’Inquisizione circa un secolo prima.

Pietro d’Abano, figlio del notaio Costanzo, nato ad Abano nel 1250, aveva studiato ogni genere di scienza ed aveva intrapreso numerosi viaggi in Oriente, approfondendo filosofia e medicina. A Padova, Pietro compilò il Conciliatore, la sua più importante opera, ma sminuendo i medici locali, attirò su di sé l’invidia che sfociò nell’accusa agli inquisitori di magia, eresia ed ateismo. Scagionato per due volte, la terza volta che fu incolpato finì in prigione e morì sotto tortura.  A seguito della condanna il suo cadavere fu dissotterrato e arso sul rogo.

Nel Salone sono conservati la pietra del vituperio, su cui i debitori insolventi erano obbligati a battere per tre volte le natiche, dopo essersi spogliati, ed un grande cavallo ligneo, realizzato da Annibale Capodilista un tempo portato in pubblico nelle grandi solennità.

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: P. Brandolese, Pitture, sculture, architetture ed altre cose notabili di Padova; G. Gennari, Annali della città di Padova

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