La Battaglia di Canne descritta da Polibio

E’ stata una delle principali battaglie della seconda guerra punica ed ebbe luogo in Puglia, a Canne. Polibio la racconta così (Storie, III, 113-117):

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113. Il giorno seguente Gneo assunse il comando e non appena cominciò ad albeggiare, condusse fuori le sue forze contemporaneamente dai due accampamenti. Fece attraversare il fiume e schierare subito dall’altra parte gli uomini dell’accampamento maggiore, poi congiunse con questi e ordinò nella stessa linea quelli dell’altro in modo che tutta la fronte fosse rivolta verso mezzogiorno. Schierò quindi i cavalieri romani lungo il fiume nell’ala destra, di seguito a questi, sulla stessa linea, la fanteria, disponendo i manipoli più fitti del solito e facendoli molto più profondi che larghi: oppose all’ala sinistra i cavalieri degli alleati; in avanguardia, a una certa distanza, schierò le forze armate alla leggera. Compresi gli alleati, vi erano in tutto ottantamila fanti e poco più di seimila cavalieri. Annibale contemporaneamente avendo traghettato al di là del fiume i Baleari e gli astati, li dispose dinanzi all’esercito, condusse poi fuori gli altri dall’accampamento e, fatta loro attraversare la corrente in due luoghi, li schierò di fronte ai nemici. Dispose proprio lungo il fiume, sul lato sinistro, i cavalieri iberici e celti di contro ai cavalieri romani, di seguito a questi la metà dei fanti libici armati pesantemente, poi gli Iberi e i Celti. Presso questi pose l’altra metà dei Libici e all’ala destra schierò la cavalleria numidica. Quando li ebbe disposti tutti su una fila, avanzò con le schiere centrali degli Iberi e dei Celti e dispose le altre congiunte a queste in modo preordinato, sì da formare una convessità a forma di mezza luna, e di rendere meno profondo lo schieramento, volendo che gli Africani formassero nella battaglia un corpo di riserva e che fossero gli Iberi e i Celti a dare inizio all’azione.

114. L’armamento dei Libici era romano, poiché Annibale aveva equipaggiato tutti i suoi soldati con le spoglie raccolte nella battaglia precedente: gli Iberi e i Celti portavano scudi simili e spade di forma completamente diversa: la spada iberica infatti non era meno forte nei colpi di punta che in quelli di taglio, mentre quella gallica non serviva che di taglio e da una certa distanza. Essi erano disposti a manipoli alterni, i Celti ignudi, gli Iberi, secondo il patrio costume, vestiti di corte tuniche di lino orlate di porpora: riuscivano, così, strani e insieme spaventosi a vedersi. La cavalleria cartaginese assommava a quasi diecimila uomini, mentre la fanteria non superava di molto i quarantamila uomini, compresi i Celti. Comandavano l’ala destra dei Romani Emilio, la sinistra Caio: i corpi centrali Marco e Gneo, consoli dell’anno precedente. Asdrubale comandava l’ala sinistra dei Cartaginesi, dell’ala destra era capo Annone: nel centro comandava lo stesso Annibale, insieme al fratello Magone. Essendo lo schieramento romano rivolto a mezzogiorno, come ho detto più sopra, e quello cartaginese a settentrione, a nessuna delle due parti recò molestia il sorgere del sole.

115. Quando le avanguardie entrarono in azione, il combattimento fra le forze armate alla leggera, ebbe, in un primo tempo, esito pari: non appena però i cavalieri iberi e celti dall’ala sinistra vennero a contatto con la cavalleria romana, ne seguì una battaglia veramente barbarica: essi non lottavano infatti, secondo l’usanza, con conversioni e mutamenti di fronte, ma, una volta entrati nella mischia, smontavano da cavallo e combattevano avvinghiati corpo a corpo ai nemici. Le forze cartaginesi infine riuscirono superiori e, benché i Romani combattessero tutti con disperato coraggio, ne uccisero nella mischia la maggior parte e respinsero i rimanenti lungo il fiume, menandone strage e colpendo senza pietà; le forze di fanteria allora, ricevute negli intervalli le milizie leggere, cozzarono le une contro le altre. Per un po’ di tempo le file degli Iberi e dei Celti tennero duro e resistettero coraggiosamente ai Romani: più tardi però, oppressi dalla massa, ripiegarono e si ritirarono, rompendo lo schieramento lunato. Le forze dei Romani, inseguendoli con impeto, spezzarono facilmente la fronte degli avversari anche perché la schiera dei Celti era poco profonda ai lati e infittiva dalle ali verso il centro e il luogo della battaglia: le ali e i centri, poi, non entrarono simultaneamente in azione, ma cominciarono a combattere i centri. I Celti, disposti a mezzaluna, erano molto avanzati rispetto alle ali, perché il loro schieramento lunato aveva la convessità rivolta verso i nemici. I Romani inseguendo questi e accorrendo tutti verso il centro dei nemici, che cominciava a cedere, si cacciarono tanto innanzi, che da entrambi le parti i Libici armati pesantemente vennero a trovarsi di fianco a loro: di essi, quelli che si trovavano all’ala destra, operando una conversione a sinistra, e facendo impeto da destra, strinsero di fianco i nemici, mentre quelli che erano a sinistra, ripiegando verso destra, si schierarono sulla sinistra: la situazione stessa suggeriva la tattica da seguire. Così, secondo il piano di Annibale, i Romani, nel precipitarsi dietro ai Celti, si trovarono rinchiusi fra le schiere dei Libici. Questi poi combattevano contro quelli che li attaccavano di fianco non in formazioni serrate, ma lottando singolarmente o per manipoli.

116. Lucio, benché fin da principio fosse stato nell’ala destra e avesse partecipato alla battaglia della cavalleria, tuttavia sino a quel momento si era salvato. Desiderava però che il suo operato fosse coerente con quanto aveva detto nell’esortare i suoi; vedendo quindi che la sorte definitiva della battaglia era affidata alle forze di fanteria, spinto il cavallo verso il centro dell’intero schieramento, personalmente si scagliò contro gli avversari e venne a battaglia con loro, mentre nello stesso tempo esortava e incitava i suoi soldati. Lo stesso fece pure Annibale, che fin da principio aveva comandato questa parte delle truppe. I Numidi dell’ala destra, attaccando i cavalieri avversari schierati sul fianco sinistro, non inflissero né subirono gravi perdite, dato il loro particolare modo di combattere, ma immobilizzarono i nemici, distraendoli e attaccandoli da ogni parte. Quando però i soldati di Asdrubale, fatta strage dei cavalieri che erano lungo il fiume, tranne pochissimi, vennero in aiuto ai Numidi dall’ala sinistra, la cavalleria alleata dei Romani, prevedendo il loro assalto, ripiegò e retrocedette. Asdrubale ha fama di aver agito in questa occasione con molta abilità e prudenza: vedendo infatti che i Numidi erano numerosi, pieni di ardore e molto temibili per un nemico che già aveva cominciato a ripiegare, affidò loro il compito di inseguire i fuggiaschi e condusse i suoi squadroni là dove ardeva la battaglia fra le fanterie, con lo scopo di venire in aiuto ai Libici. Attaccate dunque alle spalle le legioni romane, rivolgendo successive puntate contro le varie schiere contemporaneamente in molti luoghi, rinfrancò i Libici, indebolì, invece, ed avvilì moralmente i Romani. In questo frangente Lucio Emilio colpito da molte parti, morì in battaglia, dopo aver compiuto più di ogni altro il suo dovere verso la patria per tutta la sua vita e fino agli estremi. I Romani, finché poterono combattere, volgendosi da tutti i lati contro quanti li avevano accerchiati, resistettero: ma, essendo ormai stati uccisi l’uno sull’altro gli uomini delle file esterne e trovandosi rinchiusi in breve spazio, infine tutti perirono sul campo, fra gli altri pure Marco e Gneo, i consoli dell’anno precedente, uomini valorosi, che anche durante quella battaglia si erano dimostrati degni di Roma. Mentre si svolgeva questo rovinoso combattimento, i Numidi, inseguendo i cavalieri in fuga, ne uccisero la maggior parte, e sbalzarono gli altri da cavallo. Alcuni pochi scamparono a Venosa, fra gli altri il console romano Caio Terenzio, uomo di animo ignobile, che durante il suo periodo di governo nulla aveva saputo compiere di vantaggioso per la patria.

117. Tale fu l’esito della battaglia di Canne fra i Romani e i Cartaginesi, battaglia nella quale sia i vincitori che i vinti diedero prova di grande valore, come apparve evidente dai fatti. Dei seimila cavalieri, settanta si rifugiarono con Caio a Venosa, circa trecento alleati si salvarono alla spicciolata nelle città: dei fanti circa diecimila, che non avevano partecipato al combattimento, furono presi in armi, sul campo di battaglia, mentre solo tremila uomini fuggirono nelle città vicine. Tutti gli altri, circa settantamila, morirono da valorosi; in quell’occasione come precedentemente la superiorità numerica della cavalleria diede il massimo contributo alla vittoria dei Cartaginesi. Fu dimostrato ai posteri che è meglio, in guerra, disporre la metà dei fanti, ma essere decisamente superiori nella cavalleria, piuttosto che combattere con forze del tutto pari all’avversario. Dell’esercito di Annibale caddero circa quattromila Celti, millecinquecento Iberi e Libici, circa duecento cavalieri. I prigionieri romani erano rimasti fuori dalla battaglia per la ragione che dirò. Lucio aveva lasciato diecimila fanti presso il suo accampamento, affinché se Annibale, trascurando il proprio campo, avesse schierato tutte le sue forze, approfittando del momento della battaglia, essi l’attaccassero e si impadronissero delle salmerie degli avversari; se invece, in previsione di tale manovra, Annibale avesse lasciato un presidio sufficiente, la battaglia decisiva potesse essere combattuta contro minor numero di avversari. La cattura avvenne in questo modo: Annibale aveva lasciato a difesa dell’accampamento un corpo di guardia sufficiente; non appena cominciò la battaglia, i Romani, secondo l’ordine ricevuto, avevano prima circondato poi attaccato le forze cartaginesi lasciate nell’accampamento. Dapprima queste opposero resistenza: quando già stavano per venir sopraffatte, Annibale, ormai vittorioso in tutti gli altri settori, accorso in aiuto dei suoi, volse in fuga i Romani e, rinchiusili nel loro accampamento, ne uccise duemila e fece prigionieri tutti i rimanenti. Similmente i Numidi, espugnati i castelli della regione che avevano dato loro asilo, ricondussero con sé quanti vi avevano cercato scampo, e cioè circa duemila dei cavalieri che erano stati volti in fuga.

 

 

 

 

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