La Canzone per la presa di Pancalieri

La Canzone per la presa di Pancalieri è uno dei più antichi testi scritti in volgare piemontese. Questo documento ha una storia singolare, oltre che costituire una testimonianza eccezionale della lingua pedemontana del XV secolo. Esso è conservato all’Archivio Storico del Comune di Torino, e si trova in un posto insolito: appare, come annotazione, in uno degli antichi libri degli Ordinati della Credenza Maggiore, ossia in uno dei libri che raccolgono le disposizioni dell’organo di governo della città, durante il Medioevo.

Non essendo ancora intervenuto l’Editto di Rivoli di Emanuele Filiberto, che sostituì all’uso del latino nella redazione degli atti ufficiali il francese nei territori ad ovest delle Alpi e l’italiano nei territori ad est, i libri degli Ordinati di Torino sono redatti in latino.  Senonché, in mezzo a tutte le pagine in lingua latina, alla data del 7 novembre 1410, spiccano queste singolari rime in piemontese antico.

La calligrafia dell’estensore di questo testo, è la stessa di chi ha redatto, prima e dopo di esso, le parti in latino: quindi, si può ragionevolmente pensare che lo abbia vergato non un poeta, ma un segretario o un cancelliere. Ma che tipo di lingua è quella utilizzata? Quello che salta subito agli occhi, è che il piemontese del XV secolo, era una lingua molto prossima ai coevi “patois” francoprovenzali del Delfinato. Ecco il testo, con la relativa traduzione: «Que lo castel de Panchaler / Que tuyt temp era fronter / E de tute malnestay fontana; / per mantenir la bauzana / e al pays de Peamont trater dermage, / e li segnour de chel castel n’avén lor corage / Ore lo bon princi de la Morea, Loys, / Elia descaza e honorevolment conquys;/ que ogla sò host fermà e tut entorn environà /  de gent dape e de gent d’arme, unt eren trey coglard e quatre bombarde» (ossia, «Il castello di Pancalieri, era sulla frontiera, e i suoi feudatari, per assecondare il Marchese di Saluzzo, portavano danno, distruzione e malvagità nel vicino Piemonte. Finalmente, ora, questi crudeli signori sono stati scacciati ed onorevolmente sconfitti dal buon principe Ludovico d’Acaia e di Morea, che ha circondato con il suo esercito il castello, e lo ha stretto d’assedio, battendo i bastioni con tre arieti e quattro bombarde»).

E proseguendo, nella seconda strofa, «Ma per la vertuy de Madona Luysa / chel castel ha cambià devysa, / sì que lan mille CCCCX, circa le XXII hore, / lo mercol, ady vint nof de ottovre,  chigl del castel se son rendù / e ala marcy del dit princi se son metù, / que glia de dintre soe gent mandà / e la soa bandera sussa lo castel àn butà, / la qual n’à la banda biova traversa, / en criant aute vox: «Viva lo princi a part versa. / Al qual Dee per la soa bontà / Longament dea vitoria e bona santà» (tradotto «Ma è stato grazie alla potenza della bombarda più grossa, battezzata “Madonna Luisa”, che il castello ha cambiato l’insegna che svetta sulla torre. Infatti, dopo il suo intervento, il 29 di ottobre 1410, quelli del castello si sono arresi, e si sono rimessi alla mercè del principe. Quest’ultimo ha inviato i suoi soldati all’interno, e questi hanno innalzato sul pennone più alto la bandiera degli Acaja (che ha una banda azzurra diagonale), e mentre la alzavano gridavano: “Viva la parte guelfa, e viva il Principe, al quale Dio conceda di vivere a lungo, e in buona salute!”»).

Dunque è un testo che narra di un fatto d’arme, cioè di una vittoria dell’esercito del Principe d’Acaja su quello del Marchese di Saluzzo: l’ipotesi plausibile sull’origine di questo testo è che esso venne scritto, sotto l’effetto dell’entusiasmo, durante una seduta della Credenza, quando la notizia della vittoria arrivò a Torino. Si tratta un piccolo componimento epico, che rimonta al 1410, e che racconta un episodio bellico accaduto quando erano incessanti le guerre tra la Contea di Savoia, ed il Marchesato di Saluzzo. A quei tempi, Pancalieri era dominata da uno dei più importanti castelli del Piemonte, che oggi, incredibilmente, dopo aver patito plurime distruzioni, non esiste più. Ma all’epoca dei fatti, il castello (del quale erano signori i Provana) non solo esisteva, ma si ergeva imponente, in posizione strategica, sulla frontiera tra il Principato d’Acaja e il Marchesato di Saluzzo. Ma andiamo a conoscere meglio i contorni della vicenda, tramite le parole che Goffredo Casalis scrisse nel 1833 nel Dizionario Storico e Geografico degli Stati Sardi: «Antonio Provana Cavaliere di Rodi e suo cugino, signori di Pancalieri, rimasero fedeli a Tommaso di Saluzzo, nelle differenze che questi ebbe con Lodovico d’Acaia. Anzi, ricorsero al signore di Milano, perché mandasse a loro aiuti in danno del Principe di Acaia. Lodovico si sdegnò aspramente per questo e spedì nel 1409 contro i due Provana buon nerbo di truppe sotto la scorta di Boccicaldo Generale dei Francesi, che l’anno prima si era alleato con lui. Sconfisse i due Provana e li respinse al di là dei monti. Allora Lodovico Costa di Chieri, coll’esercito del principe Ludovico, venne ad occupare il Castello di Pancalieri. Pancalieri si arrese nel 1410. Ludovico d’Acaia conquistato Pancalieri, con atto del 1411 lo donò a Filippo suo figlio naturale insieme con Osasio e Castel Rainero e il 14 febbraio 1416 lo donò ad un altro figlio naturale di nome Ludovico». Torino, a quel tempo, apparteneva agli Acaja (l’attuale Palazzo Madama, era il Castello degli Acaja): questo ci spiega perché la notizia della vittoria, portata alla Credenza da un messaggero, dovesse entusiasmare i presenti, e spingere uno sconosciuto cancelliere a scrivere quelle parole, che presentano più motivi di interesse, sia linguistico che storico. Innanzitutto, qui appare per la prima volta il nome “Peamont”, in luogo dei latini “Pedemontium” o “Pedemontis”.  Poi, l’influsso transalpino lo troviamo evidente, per esempio, nei termini come: “pays de Peamont trater dermage”, “segnour”, “corage”, ”princi”, “conquys”, ”fermà”, “tut environà”, “marcy” “criant aute vox”: e “bona santà”. Ma abbiamo detto che il pezzo ci fornisce anche delle preziose informazioni storiche: esso ci racconta alcuni particolari di un assedio durante il XV secolo, e di come le prime armi da fuoco fossero esiziali per le mura delle antiche fortezze (come il castello di Pancalieri, che veniva già nominato nel 1163 in un documento di Federico Barbarossa).

Dalla Presa di Pancalieri, apprendiamo che, per abbattere le mura, furono utilizzati “trey coglard e quatre bombarde”. Che cos’ erano i “coglard”? Erano delle macchine da assedio: nel Dictionnaire de l’Ancienne Langue Française, et de tous ses Dialectes du IXe au XVe siècle di Frédéric Godefroy, il “coillard” o “coullart” viene definito come una «Machine de guerre qui servait à jeter des pierres». Luigi Cibrario, nel suo libro del 1854 Delle artiglierie dal MCCC al MDCC, spiegava: «Convien distinguere le macchine da gitto, dalla armi da gitto. Nei documenti della monarchia di Savoja di qua e di là dall’Alpi, non trovo memoria che di due specie di macchine, “troje“ e “trabocchi“. La prima balestrava sassi immani, col ministero, come credo, di più fionde. La seconda, formata di un’asta in bilico con uno o due contrappesi, non aveva che una fionda, e non gettava che un projettile, ma poteva governarsi così aggiustatamente che andava ad investire in ogni minimo segno. Verso il secolo XV trovo mentovati i cogliardi, la cui corda principale aveva il nome di candela, ma perché non veggo più memoria di troje, dubito che fosse la stessa macchina denominata alla francese “couillars”. Di fatto vediamo in Cristina da Pizzano, che il “couillars” era una macchina da gittar sassi, armata di tre fionde. E forse la troja o cogliardo risponde al mangano degli Italiani…».  Tuttavia ciò che aprì una breccia nelle mura non furono i tre “cogliardi”, ma furono le quattro bombarde, che martellarono incessantemente il castello per una settimana, e delle quali la più potente, tra esse, era stata  battezzata “Madona Luysa”.  A proposito di questo nome, bisogna dire che inizialmente si credette che esso fosse riferito a una figura femminile (Costantino Nigra, il diplomatico ed etnologo, autore dei Canti popolari del Piemonte, in uno scritto  dal titolo Un documento in dialetto piemontese del 1410, pubblicato nell’anno 1884 su Romània (rivista di linguistica romanza edita a Parigi), ipotizzava che la frase «per la vertuy de Madona Luysa / chel castel ha cambià devysa» fosse da intendere nel senso che, grazie al matrimonio della sorella di  Amedeo VIII con il figlio del Marchese di Monferrato, ebbe termine la guerra).

In realtà, come dimostrò il professor Giuliano Gasca Queirazza, il nome di “Madona Luysa” andava associato alla bombarda di Pancalieri, sia perché a quel tempo si aveva l’abitudine di battezzare con nomi femminili le bocche da fuoco di particolare rilievo, sia perché nella stessa pagina degli Ordinati torinesi dove sono annotate le strofe della Presa di Pancalieri, si parla della ricompensa pecuniaria che venne corrisposta agli uomini che, con dodici paia di buoi, avevano ricondotto a Torino, da Pancalieri, una grossa bombarda da assedio.

Ultima curiosità, rivelata dal testo di Nigra, è quando queste strofe (ignorate per secoli) vennero riscoperte: «Questo componimento, non dirò poetico né metrico, ma semplicemente rimato, fu pubblicato per la prima volta [nel  1832], da [Pietro Luigi] Datta, nella sua “Storia dei Principi di Savoia del Ramo d’Acaja”, con qualche errore di trascrizione. Fu poi riprodotto, quasi cogli stessi errori, da [Goffredo] Casalis, [nel 1833], nel “Dizionario Storico e Geografico degli Stati Sardi”, da [Tommaso] Vallauri [nel 1841], nella “Storia della Poesia in Piemonte”, e da [Bernardino] Biondelli [nel 1853] nel “Saggio sui Dialetti Gallo-Italici”. Non ha carattere popolare e certamente, per l’irregolarità o meglio per l’assenza di metro, si vede che non fu mai cantato».

 

Autore articolo: Paolo Benevelli

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