La tattica navale dalla Campagna del 1588 alla Seconda Guerra Anglo-Olandese. Parte Seconda

Presentiamo ai nostri lettori la seconda parte di uno studio di Marco Mostarda intitolato “La tattica navale dalla Campagna del 1588 alla Seconda Guerra Anglo-Olandese” e dedicato all’evoluzione degli ordinamenti tattici e della relativa segnaletica navale che porteranno alla formalizzazione, coronata approssimativamente all’epoca della Battaglia di Lowestoft del 1665, della linea di fila: formazione che, come noto, dominerà poi incontrastata l’età della vela della guerra sul mare sino alle innovazioni introdotte, a partire dalla fine del XVIII secolo, dal pensiero di nuove generazioni di tattici brillanti incarnate da personalità come Rodney, Howe ed infine Nelson. Ringraziamo l’autore per avercene dato la possibilità. Clicca per leggere la prima parte.

***

Restano ora da valutare i risultati della nuova enfasi posta sull’azione delle artiglierie che, riguardo alla campagna navale del 1588, sappiamo non essere stati particolarmente incoraggianti: nonostante il pesante armamento sfoggiato dai principali galeoni inglesi [17] l’incessante tiro cui i bastimenti spagnoli furono soggetti sortì effetti tutt’altro che decisivi. [18]

Occorre tuttavia sgombrare il campo da un malinteso, ovvero che il tiro dei cannoni navali fosse inteso ad affondare un’unità nemica o distruggerla, cosa che equivarrebbe a proiettare anacronisticamente le possibilità dei moderni mezzi di offesa navale su artiglierie i cui limiti erano ben noti ai contemporanei. Ancora una volta, a chiarire le reali finalità del tiro navale, ci soccorrono le ordinanze del 1617 ove esse statuiscono che il fuoco è destinato a demolire le navi del nemico o, quantomeno, costringerle a poggiare, esponendole nella virata al rischio di collisione e così gettando la loro formazione nella più completa confusione. [19] L’estrema difficoltà di affondare una robusta nave da guerra a fronte dei limitati mezzi di offesa a disposizione rimarrà una costante per tutta l’epoca della marineria velica ed il suggerimento è pertanto di grande buon senso: a meno di colpi fortunati, tali da appiccare l’incendio al nemico e provocare magari l’esplosione dei magazzini, la migliore soluzione appare quella di sfruttare i principali difetti delle dense formazioni navali allora in voga: sottoporre i bastimenti avversari ad un tiro sufficientemente inteso da costringerli ad accostare e così esporli al rischio di sinistri. In quest’ultimo caso i danni non erano causati tanto dall’urto degli scafi, ma dall’impigliarsi delle manovre e delle alberature, che dovevano essere tempestivamente districate. Se ciò non accadeva, allorché le navi tornavano a scostarsi i cavi si strappavano, le vele si laceravano, pennoni e financo alberi potevano spezzarsi, arrecando danni tali da poter pregiudicare la loro capacità di manovrare così esponendole al rischio di essere circondate e abbordate o, peggio, di essere gettate in costa. [20] La campagna del 1588 è ricca di testimonianze da parte spagnola che ben riflettono l’impressione destata dal tiro inglese, concentrato all’altezza della linea di galleggiamento così da sconnettere il fasciame e creare delle vie d’acqua; tattica peraltro ampiamente anticipata da Filippo II nei suoi dispacci al Medina Sidonia, sintomo che Madrid era ben informata sui piani ed i mezzi del nemico: [21] pure occorre ricordare che, a prescindere dalla drammaticità dei resoconti, la tattica inglese non si proponeva il tanto ambizioso obiettivo di pervenire all’affondamento del naviglio nemico. I motivi, piuttosto, risuonano con quelli sopra esposti: aprire delle falle nel fasciame, sconnetterne le intestature, implicava che una parte dell’equipaggio dovesse essere sottratta ai posti di combattimento e, soprattutto, alle proprie mansioni alle manovre per mettere in funzione le pompe di sentina. Tanto maggiori i danni, tanto maggiore l’aliquota di equipaggio destinata alle pompe, tanto maggiore – in conseguenza – lo scadimento delle capacità combattive e, soprattutto, di manovra dell’unità a tutto vantaggio degli avversari. Questa realtà, valida nel 1588, lo sarà ancora all’epoca delle guerre anglo-olandesi ed oltre. Va accreditato all’eccezionale abilità marinaresca dei tanto sottovalutati equipaggi dell’Armada che nemmeno questi mezzi riuscissero a compromettere la tenuta della formazione spagnola: essa, dopo un iniziale sbandamento, superò anche l’attacco condotto dai brulotti inglesi nella notte fra il 27 e il 28 Luglio (O.S.), e ciò contro una consolidata tradizione storiografica che vede nella battaglia di Gravelines una pesante sconfitta rivelatasi decisiva nel determinare il fallimento della campagna navale spagnola. [22] Se si è sinora insistito sugli eventi del 1588 è perché essi, una volta spogliati di tutta una serie di singolari travisamenti di cui si è cercato di dare brevemente conto, gettano le fondamenta di molti di quei tratti che caratterizzeranno la futura guerra navale fra Inghilterra e Province Unite: già nel conflitto anglo-spagnolo troviamo forme embrionali dell’impiego della linea di fila in battaglia, l’efficacia del tiro di artiglieria nel frustrare le tattiche di abbordaggio e la contemporanea constatazione della sua inadeguatezza nel produrre sui legni nemici danni tanto rilevanti da provocarne l’affondamento, se non nel caso di poderose concentrazioni di fuoco lungamente riversate su singoli obiettivi. Inoltre, se si eccettua la breve e mai troppo convinta partecipazione inglese alla guerra dei Trent’anni nel corso del quinquennio 1625-30, il conflitto con la Spagna costituisce anche l’immediato antecedente ai fatti d’arme della seconda metà del Seicento dopo il lungo periodo di pace goduto dall’Inghilterra sotto il regno dei primi due Stuart.
Dobbiamo a questo punto dar conto del quarantennio di evoluzione tattica e normativa intercorrente fra le ordinanze di Raleigh e la sicura adozione della line ahead che si presenta, malauguratamente, ancora una volta lacunoso. Le istruzioni impartite dal futuro Lord Wimbledon [23] alla flotta nel 1625 in previsione della spedizione contro Cadice non fanno che riecheggiare gli ordinamenti tattici del 1617, sottolineando ancora una volta la necessità di attaccare battaglia solo godendo del favore del vento e dirigendo l’attacco contro la sezione più sopravvento della formazione avversaria, con le navi che si alterneranno al tiro di modo da tenere il nemico sotto un fuoco continuo: significativamente si fa ancora menzione all’abbordaggio – sia pure in un breve cenno atto a regolarne le modalità di attuazione – sintomo che la marina inglese era ancora lungi dal rompere definitivamente con le prassi continentali della guerra sul mare. [24] Ben più significativo il fatto che, per la prima volta nelle ordinanze inglesi, compaia un embrionale ordine di battaglia, dovuto presumibilmente proprio al retroterra militare di Wimbledon ed all’esigenza di conferire un approccio più sistematico all’ancora confuso regno della tattica navale: all’art. 17 fa così la sua prima comparsa una suddivisione della flotta in tre squadre contrassegnate dai colori rosso, blu e bianco delle bandiere issate in testa agli alberi. Distinzione qui ancora contingente, ma destinata in un prossimo futuro a divenire organica. [25] Né sarà l’ultima volta che ufficiali tratti dall’esercito, ed avvezzi ad ordinamenti più rigorosi di quelli ancora dominanti la marina, permetteranno a quest’ultima di compiere decisivi passi in avanti grazie al loro contributo: sarà proprio in virtù dell’esperienza e della particolare perizia artiglieresca dei Generals at sea posti al comando della flotta all’epoca del Commonwealth che la marina sarà in grado di compiere decisivi passi in avanti in termini di tattica e disciplina di fuoco. [26] I restanti ventiquattro anni di regno di Carlo I Stuart (asceso al trono nello stesso anno della spedizione contro Cadice) sono, purtroppo, poco o punto documentati, se si eccettuano i trentaquattro articoli – di cui soltanto uno dedicato alla tattica navale – dettati da Lord Lindsey [27] per il disciplinamento della prima Ship Money Fleet salpata il 17 Maggio (O.S.) 1635 al fine di riaffermare la sovranità inglese sui Narrow Seas contro le crescenti interferenze francesi ed olandesi; [28] ad essi fecero seguito, l’anno successivo, le istruzioni di Lord Northumberland, [29] dopo le quali cala sulle ordinanze ufficiali della marina inglese un silenzio destinato ad interrompersi solo all’epoca della Prima guerra anglo-olandese: un vuoto normativo da ricondursi tanto ad un complessivo conservatorismo tattico, quanto alla convinzione che la natura stessa della guerra navale – specialmente nell’età velica, in considerazione dell’imprevedibilità dei venti – mal si prestasse a direttive dettagliate e stringenti. [30]

Autore articolo: Marco Mostarda

 

Marco Mostarda ha studiato Scienze Storiche presso l’Università di Trento e collabora col Laboratorio di Storia Marittima e Navale dell’Università di Genova

NOTE:

[17] Martin, Parker, The Spanish Armada, p. 36. Nel moderno calcolo dei coefficienti di carico per le unità del periodo si conclude che i galeoni inglesi allocassero fra l’8% e l’11% del proprio tonnellaggio nominale per l’armamento, contro il 4% delle unità dell’Armada. Si badi a considerare che le navi dell’epoca erano classificate in base alla stazza e non, come accade nel caso delle moderne unità da guerra, al dislocamento. Se calcolati sulla base di quest’ultimo tali coefficienti sarebbero ben più bassi.
[18] Jan Glete, La guerra sul mare, 1500-1650. Bologna: Il Mulino, 2010, p. 232. Nel corso della sola battaglia di Portland Bill del 3 Agosto il San Juan di Recalde ed il San Martín di Medina Sidonia ricevettero, rispettivamente, 200 e 130 proietti inglesi, riportando avarie trascurabili: cfr. Martin, Parker, The Spanish Armada, p. 158.
[19] Corbett, Fighting Instructions, p. 42: “This you must do upon the windermost ship or ships of an enemy, which you shall either batter in pieces, or force him or them to bear up and so entangle them, and drive them foul one of another to their utter confusion.” A mio parere con il “batter to pieces” si fa riferimento non allo scafo, ma agli alti castelli di prora e poppa caratterizzanti le navi dell’epoca, che potevano effettivamente collassare se sottoposti ad un tiro prolungato: un precoce esempio ci è offerto dalla battaglia di San Juan de Ulúa del 1568, allorquando le sovrastrutture della Capitana della squadra spagnola crollarono sotto il tiro concentrato delle navi di Hawkins.
[20] Va infatti notato che tutti gli scontri del periodo si svolsero relativamente vicini alla terraferma. Occorrerà attendere il 1794 per assistere ad una battaglia in mare aperto, quella del Glorious First June combattutasi circa 400 miglia nautiche ad ovest di Ouessant.
[21] Il galeone di Ragusa da 800 ton San Juan de Sicilia, appartenente alla Squadra del Levante di Martín de Bertendora aveva ricevuto molti colpi “al di sotto della linea di galleggiamento in posti difficili da riparare”; la Santa Ana, il grande galeone da 1.200 ton su cui alzava le proprie insegne don Miguel de Oquendo, ammiraglio della Squadra di Guipúzcoa, era stato sventrato dai colpi nemici tanto che “le pompe stavano lavorando notte e giorno”: cit. in Parker, Martin, The Spanish Armada, p. 179; Angus Konstan, Sovereigns of the Seas. The Quest to Build the Perfect Renaissance Battleship. Hoboken: John Wiley & Sons, 2008, p. 215. Quanto alla lettera in cui Filippo II anticipa la tattica inglese – sia pure peccando di ingenuità col credere che essa sia effettivamente volta all’affondamento del naviglio avversario e non alla compromissione delle sue capacità di manovra e difesa – egli scriveva al Medina Sidonia che “[…] il nemico impiega la sua artiglieria per produrre un tiro basso e così affondare le navi avversarie; e voi dovrete prendere quelle precauzioni che riterrete necessarie a tal riguardo”. Il documento (AGS, Estado 165/104-14) è citato in Parker, Martin, The Spanish Armada, pp. 139-40.
[22] Per una interpretazione classica, cfr. Garrett Mattingly, L’invincibile Armada. Torino: Einaudi, 1967, pp. 249-256; il capitolo dedicato a Gravelines è programmaticamente intitolato “Lo schieramento infranto”. Per una lettura che tiene conto delle più recenti acquisizioni storiografiche in materia si veda, ad esempio, l’osservazione di passata formulata da Phillip Williams in Id., Empire and the Holy War in the Mediterranean. The Galley and Maritime Conflict between the Habsburgs and Ottomans. London-New York: I. B. Tauris, 2014, pp. 228-29, ove si riconosce alle ricerche d’archivio di José Louis Casado Soto il merito di aver rivoluzionato la nostra comprensione degli eventi del 1588: purtroppo non sono ancora molti gli studi di area anglosassone ad essersi liberati di consolidati cliché storiografici. Quantunque l’Armada fallisse al livello strategico a causa di piani singolarmente mal congegnati, nessuno scontro tattico fu capace di averne ragione: anche la battaglia di Gravelines si rivelò in verità tutt’altro che decisiva arrecando alla flotta spagnola danni complessivamente limitati, tant’è che questa, recuperata la propria formazione, offrì battaglia alla flotta inglese per ben tre giorni consecutivi. Gli inglesi, saggiamente, rifiutarono, dacché in quelle nove ore di battaglia i venti avevano già spinto la formazione spagnola sino all’altezza di Ostenda e pertanto frustrato qualsiasi tentativo di ricongiungimento col Duca di Parma, decretando il fallimento della spedizione. David Childs, un deciso critico della strategia della marina elisabettiana, si spinge anzi sino a parlare di un complessivo fallimento inglese nell’avere ragione dell’Armada, da imputarsi al fatto che la flotta di Howard, composta prevalentemente “da pirati con priorità piratesche”, fosse un organismo tutt’altro che coeso ed in grado di porre in essere coerenti ed efficaci tattiche di combattimento: queste avrebbero necessariamente previsto il tiro di bordata a distanza serrata, subito seguito dall’abbordaggio, laddove sino a Gravelines l’azione inglese si limitò ad un tiro sulla lunga distanza del tutto inefficace. Cfr. David Childs, Pirate Nation. Elizabeth I and her Royal Sea Rovers. Barnsley: Seaforth Publishing, 2014, pp. 150-56.
[23] Edward Cecil, 1st Viscount Wimbledon (1572-1638), un colonnello dell’esercito formatosi nel corso della guerra delle Fiandre contro gli spagnoli durante il periodo 1596-1610. Le sue cognizioni marinaresche erano pressoché nulle, ma ciò non dovrebbe indurre a conclusioni affrettate riguardo alla sue abilità di comando. Ancora in questo periodo l’intercambiabilità dei comandi a terra ed in mare, e la nomina di comandanti dell’esercito a capo di squadre navali – rivelandosi peraltro non di rado talentuosi ammiragli – costituiva prassi normale; lo si vedrà nuovamente in occasione della Prima guerra anglo-olandese.
[24] Lord Wimbledon, A copy of those instructions etc., in Corbett, Fighting Instructions, p. 59-60: “No man shall board any enemy’s ship, especially such as command the king’s ship, without special order from me. […] If we be under the lee of an enemy, every squadron and ship shall labour to recover the wind (if the admiral endeavour it). But if we find an enemy lo leeward of us the whole fleet shall follow in their several places, the admirals with the head of the enemy, the vice-admirals with the body, and the rear-admirals with the sternmost ships of the chase (or other leading ships which shall be appointed) within musket shot of the enemy, giving so much liberty to the leading ship as after her broadside delivered she may stay and trim her sails; then is the second ship to give her side, and the third and fourth, with the rest of that division; which done they shall all tack as the first ship and give their other sides, keeping the enemy under perpetual volley. This you must do upon the windermost ship or ships of the enemy, which you shall either batter in pieces, or force him or them to bear up, and so entangle them or drive them foul one of another to their utter confusion.”
[25] Id., Ibid., p. 55: “The whole fleet is to be divided into three squadrons: the admiral’s squadron to wear red flags and red pennants on the main topmast-heads; the vice-admiral’s squadron to wear blue flags and blue pennants on the fore topmast-heads; the rear-admiral’s squadron to wear white flags and white pennants on the mizen (sic) topmast-heads.”
[26] Converrà notare come tale evoluzione fosse più accidentale che scientemente ricercata; la nomina dei Generals at Sea aveva infatti motivazioni eminentemente politiche, puntando a portare un organismo – quale era la marina – sulla cui fedeltà era legittimo dubitare sotto il controllo di ufficiali dalle impeccabili credenziali repubblicane e puritane.
[27] Robert Bertie, 1st Earl of Lindsey (1582-1642), un altro degli ufficiali dell’esercito che si erano fatti le ossa combattendo nelle Fiandre contro gli spagnoli. Allo scoppio della guerra civile avrebbe militato fra i realisti, venendo anche nominato da Re Carlo I comandante in capo dell’esercito alla vigilia della battaglia di Edgehill del 23 Ottobre (O.S.) 1642. Dimessosi dal comando per una disputa insorta col principe Rupert circa la preferenza di Lindsey per uno schieramento secondo la scuola olandese, sarebbe morto nello scontro alla testa del suo reggimento.
[28] Per Narrow Seas, su cui l’Inghilterra tradizionalmente rivendicava la propria sovranità, si indicavano il Canale della Manica ed il Mare del Nord meridionale compreso fra la costa inglese e quella olandese (51.3°-53.5° N).
[29] Algernon Percy, 10th Earl of Northumberland (1602-1668) e Lord High Admiral dal 1638 al 1643, sarebbe divenuto il più alto esponente del governo di Carlo I a schierarsi con le forze parlamentari nel corso della guerra civile.
[30] L’art. 10 delle istruzioni dettate da Lord Northumberland recita testualmente: “The uncertainty of a sea fight is such that no certain instructions can be given by reason; till we come to it we know not how the enemy will work, and then (as often befalls) one ship will becalm another and some not possible to luff or bear up as they would because of ships that are near them; and many other accidents which must be left to every captain to govern by his own discretion and valour”. Tali istruzioni, tratte dal Leconfield MS 33, sono riportate integralmente in Tunstall, Naval Warfare, p. 16.

historiaregni

Historia Regni è un portale telematico dedicato alla storia, anzitutto quella italiana. Nasce su iniziativa di Angelo D’Ambra, è senza scopo di lucro e si avvale di collaborazioni gratuite. Le foto presenti sono state, in parte, prese da internet e quindi valutate di pubblico dominio. Se gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, non avranno che da segnalarlo al nostro indirizzo email info@historiaregni.it e si provvederà alla rimozione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *