Il meridionalismo di Pasquale Turiello

Quello di Pasquale Turiello è un nome ricorrente nella letteratura storico-politica meridionale, ma un nome scomodo e sempre associato a scarne riflessioni.

Lo storico Massimo Luigi Salvadori lo definì “un neo-hegeliano passato in un bagno positivistico: tanto più che sia Hegel che Darwin e Spencer avevano non poco permeato di sé la cultura napoletana, in cui il nostro s’era formato” (Il mito del buongoverno, Torino 1960). Fisicamente tarchiato, robusto, dal carattere invece sdegnoso ed austero, ma romantico e schivo agli onori, con una vita dedicata alla famiglia ed agli amici, Turiello incarnò valori e prospettive d’un epoca di disillusioni (R. Molinelli, Pasquale Turiello precursore del nazionalismo italiano, Urbino 1968).

Nel 1860, a ventiquattro anni, aveva preso parte alla spedizione dei Mille come volontario garibaldino nella Compagnia del Matese occupando pure Benevento, allora parte dello Stato Pontificio, per annetterla alla neonata Italia. Nel 1861, il nostro fece parte del battaglione della Guardia Nazionale di stanza in Toscana; nel 1866 seguì Garibaldi in Trentino come addetto allo stato maggiore e l’anno dopo partecipò pure alla fallita presa di Roma, ma il suo spirito non fu solo quello di un combattente.

Un quadro biografico completo ci è dato da Raffaele De Cesare in “Commemorazione di Pasquale Turiello”. Avvocato, professore di storia al liceo “Vittorio Emanuele” di Napoli, giornalista, ispettore nelle scuole comunali, amministratore dell’Albergo dei Poveri, Commissario Regio a San Giorgio a Cremano, Turiello fu personalità di rilievo della Destra Storica, abile organizzatore di consenso politico nelle “Provincie napolitane” e consigliere di fiducia di Silvio Spaventa.

 

Antidemocratico, antiparlamentare, favorevole alla pena di morte, antisocialista, fortemente attaccato alla monarchia, questo era Pasquale Turiello ed il suo meridionalismo può essere inteso come una estensione di italianismo.

Nella sua ottica, il sottosviluppo economico non solo meridionale, ma dell’intera Italia, era anche civile e dipendeva dalla “scioltezza eccessiva degli individui”, dalla scarsezza di moralità, dalla mancanza di senso del dovere, presente in tutto il Paese ma più forte a Sud. Da qui si originavano rapporti personalistici, clientelari e camorristici che nei testi di Turiello prendono la forma di statistiche, dati e testimonianze. L’eccessivo individualismo, la furberia e la mancanza di disciplina erano riconosciuti come tratti comuni a tutto il popolo italiano che nei meridionali divenivano più acuti. Tutto ciò si traduceva in mancanza di spirito di collaborazione e diffusa immoralità, quindi corruzione e familismo: “Dalla lotta viva tra gli individui così mobili ed esuberanti fuori della famiglia nasce la diffidenza, in ogni convegno, in ogni società pubblica. L’ordine singolare che li fa egregi negli scontri di uomo contro uomo, come è rilevato da chiunque li conosca, cessa nel Napoletano quando gli bisogni procedere associato… Onde è che, fuori della famiglia, non trovi quasi altri legami morali”.

Qualcosa di comune al pensiero di Giustino Fortunato c’è, ma a differenza di Fortunato, cui dedicò la seconda edizione di “Governo e governati”, Turiello non riteneva che questi aspetti fossero semplicemente un prodotto della geografia e della storia d’Italia, né ritenne che le diverse varianti caratteriali fossero puramente il risultato di differenze tra le varie istituzioni sociali e politiche del paese. Il feudalesimo era esistito in Piemonte come al Sud, gli spagnoli avevano governato Napoli come Milano, la storia dunque aveva giocato un ruolo limitato nella formazione del carattere degli Italiani che era invece un fattore innato, d’attitudine.

Questa insofferenza alle regole, questa indisciplina, questo rifiuto dell’ordine poteva solo essere corretto con un governo forte.

Il “discentramento”, ovvero il decentramento del potere politico promosso dalla Sinistra Storica, non avrebbero fatto altro che aumentare i danni dell’indole italiana e meridionale in particolare. Turiello così invocava meno parlamento e più monarchia, chiedeva cioè un’applicazione più rigida dello Statuto Albertino con l’utilizzo della prerogativa del sovrano di nominare il Primo Ministro senza doversi inchinare alla volontà parlamentare (S. Patriarca, Italianità: La costruzione del carattere nazionale, Bari 2015).

In tutto il Paese, il senso dello Stato e l’osservanza della legge si liquefacevano vittima dell’indole delle popolazioni italiane che generava distorsioni profonde nei meccanismi della rappresentanza politica. La grande degenerazione era per Turiello dovuta all’avvento della Sinistra al potere. Il Turiello descrisse le elezioni politiche del 1876 come il “trionfo dell’inorganico sull’organico, delle clientele, anzi proprio della maggior clientela che abbia mai avuta l’Italia, sui partiti”. Viveva gli anni del “trasformismo” e ne fu aspro critico.

In Italia vi era ormai una rappresentanza politica dominata dal clientelismo: “Da un partito ristretto, qual era quello della Destra, ma rigoroso e coerente nei metodi e con una visione elevata degli interessi generali del paese si era passati ad una camera elettiva ormai onnipotente, in cui i partiti non avevano più una fisionomia propria e distinta, ma si componevano e scomponevano sulla base delle spinte e convenienze più varie” . La denuncia forte arrivò con la critica alla riforma elettorale approvata nel 1882 dalla Sinistra storica, ne fa testimonianza “Governo e governati” che resta il suo libro più ricordato. Turiello fu contrario al voto a tutti: “l’allargamento del suffragio e lo scrutinio di lista non permettono di temprare, ma già anzi allargano questa corruzione: perché indeboliscono le relazioni oneste, e le possibili correnti consapevoli di stima tra elettori ed eletti”.

Si può meglio comprendere l’autorevolezza di queste posizioni se si pensa che all’epoca la battaglia contro l’estensione del voto era comune a tanti esponenti della Destra come Settembrini, Spaventa, Mosca, Sonnino

Il clientelismo andava di pari passo con l’estremo individualismo della società italiana. I due fenomeni indebolivano lo stato e ne minavano l’amministrazione della giustizia. Di qui la condanna di Turiello anche dell’abolizione della pena di morte e delle assoluzioni facili: “…come sia scemata la terribilità della pena, così per la lunghezza dei giudizi, come per le nuove agevolezze delle carceri, per le amnistie, i giurati e la smessa attuazione della pena di morte. Onde la fantasia del malfattore può ben fingersi brandito d’orinario da incerta mano, e non mai minacciosa alla sua vita, la spada simbolica della giustizia”. La pena di morte, come ebbe a commentare il suo amico Pasquale Villari, era per Turiello non un atto contrario alla giustizia sociale ma l’atto in cui la “società difende la propria esistenza” (P. Villari, L’Italia giudicata da un meridionale, in “Rassegna Settimanale”, Roma 1879).

Dunque celebrò lo stato autoritario, interventista e colonialista, trovò in Crispi l’uomo forte, quello della repressione ai Fasci siciliani, “uomo capace di indicarci la bona via insieme, e d’aprircela; poiché né i partiti né l’opinione pubblica da soli qui per troppo tempo non riescono ad altro che a piagnucolare sul passato, anzi che a mostrarci l’alba chiara d’un più benigno avvenire” (P. Turiello, Dal Giolitti a Cassala, in “Rassegna Agraria, Industriale, Commerciale, Politica”, Roma 1894).

Nato a Napoli 1836, vi morì nel 1902.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: (a cura di Piero Bevilacqua) P. Turiello, Governo e governati

F. Di Dato, Coscienze Critiche della Destra Meridionale, Vittorio Imbriani e Pasquale Turiello

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